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Carlo Dossi

 

LA DESINENZA IN A

 

 

Craignez les trous car ils sont

dangereux

Villon

 

 

AVVERTENZA

 

In questo volumeoltre i sòlitisi adottàrono ex-novo osi applicàrono in modo inconsueto i seguenti segni di interpunzione ed'accentazione:

1° il «due vìrgole»altra pàusasecondariamaggiore della sèmplice vìrgolaminore del punto e vìrgola.Vediper la giustificazione di questo quarto tempo letterario d'aspettolanota aggiunta alla «Colonia felice» pag. 175 della sua ùltimaedizione (RomaSommaruga1883);

2° l'«accento grave(`)»cheseguendo la regola diCarlo Cattaneogià seguita da Pàolo Gorini e da altrifu impiegato a segnaretutte le parole non solo tronche (precipitò) ma semitronche (precipitài)nonché sdrucciole (precìpiti) bisdrùcciole (precìpitano)e trisdrucciole (precìpitanosi). Le parole senza accentodèbbono quindi considerarsi come piane (precipitare) o semipiane(precipuo).

Dell'accento acuto (´) non s'è fatto casoritenendolosuperfluo; né si adoperò il circonflesso che a semplice indicazione delleparole sincopate (raccôrre per raccògliere);

il doppio punto interrogativo od esclamativo ossiaantecedente e susseguente la frase (es. ¿Mi amerài? - ¡ Vatti a farfrìggere!). E ciò sul sistema spagnoloa nostro avvisoutilìssimo perevitare a chi legge a voce alta - màssime nei perìodi lunghi in cui la domandao la esclamazione non apparisce chiaramente fin dalle prime parole - di doversiad un trattodinanzi all'impreveduto punto di ostàcoloarrestare per cosìdire col pie' levato fuor di equilibrio. Si obedisce però al vecchio uso inquelle frasi che comìnciano con parole od interiezioni che sono già per sèstesse esclamazioni od interrogazioni (come ah! oh! deh!ecc.).

 

 

 

Margine alla «Desinenzain A»

 

¿Da qual caminetto di letterato o banco di drogherìadaqual latrina di gazzettiere o biblioteca in saccheggio bonghianohai tùmiotemerario editoresaputo salvarmi questa copia rarìssima della prima edizionedella «Desinenza in A»che t'intestasti a ristampare?

¡Vedi quanto è làcera e unta! ¡quanto è macchiata escorbiata!

Nelle sue pàginecome in suola alpinìstica irta di chiodiscorgi e fiuti la traccia del lunghìssimo giro che ha fatto per ritornare a mè.Serba essa il meretricio profumo del boudoir della dama e il tanfocarcerario della caserma; e cèneri dell'ozio elegante (la sigaretta) e ilpelime del dotto. Io vi ritrovo il baffo de' polpastrelli della cuoca che se laleggeva a voce alta e tenèndola strettaper non lasciarsi almeno sfuggire ilsuono d'idèe che non arrivava a comprènderee lo sgraffio furioso dellapadrona di lei che le avèa fin troppo comprese; io v'incontro la tabaccosagocciacaduta insieme agli occhiali dal naso del mio vecchio maestro di bellelèttere che blandamente ci si appisolava compassionàndomie la gualcitura delcriticuccio novello che la scagliava lontano da sè al primo dubbio che l'autorefosse men bestia di quanto ei sperava.

Nè solamente indovino ma leggo. Segni in matita di tutti icoloripudiche cancellature effetto d'impudiciziapunti esclamativiepiùancorad'interrogazionepostille e paraffi adulatorii e ingiuriosistèndonosulle pàgine della rèduce copia una ragnaja d'interpretazioni e di note chepiù grottesca e contraddicèntesi non èbbero Dante e il Burchiello.

¿Chi siete voimièi inèditi crìtici? In questo ripescatoesemplarenè il frontespizio nè i màrgini han mantenuto le vostreriveritìssime firme. Ogni suo ùltimo possessore - imitando quanto si tenta oradi fare nella genealogìa letterariaa differenza della gentilizia in cui inipoti gènerano i nonni - raschiò diligentemente il nome dell'antecessore.Senonchè tutti io ringrazio e miti e spietatiperocchè a mè giova tanto lalìrica di chi mi ama quanto la sàtira di chi m'odia. Per pensareperscrìvereper vìvere intellettualmente mi è indispensabile che le molècoleora pigredel mio cervelloriaquìstino la primitiva rapidità ecombustibilità. Venga la spinta dall'applàusovenga dall'oltraggioa mèbasta che non difetti. Ad un morso di caneGerolamo Cardanobizzarramentegrandedovette (com'egli narra) il suo ingegno; a quello dei crìtici dèbbonoil loro non pochi scrittori. Un vento infatti è la crìticachese i mòccolispegneingagliarda i falò.

Non se ne offèndano tuttavìai mièi postillatoribenèvoli; tù Cletto Arrighitù Primo Levitù Perellitù PàoloMantegazzatù Cameronitù Capuanatù Màyor. Oltre la riconoscenza delletteratovi ha quella pure dell'uomo e questa è tutta per voi. Se la frustaed il pùngolo instìgano il sangue e più spedito lo rèndono a' suòi ufficilo plutonizza ancor meglio il baciosenapismo d'affetto. E ciò dicomentrerammèmoro in special modo coloro che hanno e saputo lodarmi senza l'ingiuriadell'adulazione e fatto spiccare il mio disadorno pensiero nella cornice delproprio. Vorrèi anzi ammirare le loro felici pensatecolle mie fusenellapresente edizione; mi ci provài; ma ¡mi perdònino! la soluzione era sàturagiànè più c'entrava una sola mica di sale. Prometto loro però disaccheggiarli alla prima occasione. Di memoria non manco nè di audacia.

Mi ajùtino intanto a discùter coi loro e mièi avversariipostillatori scontenti. Nè a questi risponderèi per le stampe se sapessi dovestan tutti di casa. Contrariamente al costituzionale principio della pubblicitàne' giudiziio preferisco trattare le letterarie mie càuse a porte chiuse.Quì peròdel nemiconon si scorge che l'arme. Sono quindi costrettoperfarmi udire da alcunia suonarequale campanaper tutti.

Chiamando dunque in soccorso la scienza di Rosellini e diChampollion per decifrare la scarabocchiaturaa pennaa matitaad unghiachecopre i lembi di questa bandiera stracciatae cercando di sgarbugliarecoll'arcolajo della riflessionetanta matassa di segnisèmbrami checomelavoro preliminarela si potrebbe partire in due grandi gomìtoli - quellocioè che s'avvolge sul generale pensiero del libro e quello sulla sua formache è quanto dire sulla idèa al minuto.

Ecominciando dall'ùltimoe facendogli sopportare unaseconda chirùrgica operazioneio mi arbitrerò anzitutto di collocarel'Opposizione della mia nessuna Maestàcome la conquistatrice acies romanain trè file - una dei saggiatori della purezza delle parolel'altra degliinvestigatori della castità della frasela terza de' stimatori della qualitàdello stile. Come vedeteper spartizioni e per tagli io non la cedo a unbeccajo... nè ad un metafìsico.

I nemici non sono pochi. Ma¡su le màniche! e avanti. Nonho coraggio bastante per aver paura.

Si affaccia prima la pigmèa e sparuta (perchè cibata dipura crusca) fanterìa de' gramàticila penna in restala brachetta fuori.Prèndersela con costoro - ultimo avanzo di un'oste già debellata - gli è comeazzuffarsi colle ombre del cardinal Bembo e di Benedetto Varchi. Non me neòccupo quindi che come di partita pro-memoria in un bilancio. Questaschiera è compostaoa dir meglioera or fà qualche annodi tutti coloroche possedèvano fede accademica di miserabilità intellettualedi coloro chenon sapendo far librifacèvano dizionari e s'inquietàvano per la corrottaitalianità e pei dialettismi non trattenuti da alcuna forca e per le stessenuove scoperte apportatrici di vocàboli nuovi. Pur di non dire «vagone»avrèbbero sempre viaggiato in vettura. Èranoin gergo scientìficochiamaticultori della istruzioneforse perchè incaricàvansi di strappare lepianticine novelle per vedere se mettèan bene radice. Rondàvano in avvisagliacon passo di sùgheroe quando accorgèvansi che qualche scrittore cercavaintrodurre nei gramaticali confini da essi riputati proprimerce non nominatanelle loro tariffelo attorniàvanoassaltàvanloarrestàvanlo schiamazzandoquali oche.

E: «quella è di legge»«questa è di contrabbando»affannàvansique' gabellieria sfilare e palpare ogni parola di un libroastemperareentro i lor staccii perìodi di un pòvero autore finchè necolasse una broda completamente sciapaincolorainodora. Nèper essiserviva la scusa della analogìala raccomandazione del buon sensol'invitodella necessità. Permettendoad esempiol'onomatopèico «cricch» perchè sileggèa a pàgina talelinea tal'altra del lor ricettarioproibìvanoirremissibilmente il suo stretto parente «cracch»non trovàndosi esso innessuna parte del mastro del loro sapere. L'òttimo autoresecondo tali notàispacciàntisi per legislatorinon dovèa aver orecchio che pei rumori e peisuoni protocollatiudir quindi eternamente la zampogna e il liutonon ilpianoforte mai. Fuor di Toscanaanzi di Firenzeanzi di Palazzo Riccardinonera letteraria salute. Poichè Arno non diede l'aqua con cui fu bollito ilproto-risotto ed impastato il capo-stipite dei panettoniMilano era tenuta diabolir senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle edizioni«dal miglior fior ne coglie» per non mèttersi a rischio di nominarlesalvochè non si fosse adattata a sostituirvi i più legìttimi nomi di «risogiallo» e di «pan balestrone.» Cosìse c'era scrittore che ancora trovassein isbaglioqualche efficace metàfora la quale non fosse catalogata tra «gliimpacci del Rosso» e «gli avanzi del grosso Cattani o del Cibacca»tra «il regno di Cornovaglia» e i viaggi «a Lodia Piacenzaa CarpiinPicardìaa Calcinajaa Volterra»tra il «mangiar spinaci» e «l'arruffarmatasse» e tutto il resto della ciurma galeotta del vocabolario toscano¡guàise l'avesse pur tollerata! dovèa immediatamente cacciarla; pena la Crusca negliocchi ed il Frullone sul capiroirati di non potereper luirussare disèguito la governativa prebenda.

Che io molto non fossi nelle grazie di sìmili egrege persone(uòmini meno di lèttere che di parole) è più chiaro della loro «chiarissimità»ora buja. Non vi ha scrittoresempre s'intendeal saggio della loro pietra diparagoneche era poi una mola mugnajapiù di mè impuro. Nè io davveromisono mai incomodato a cercareper le parole che adopromaggiori difese diquelle che danno le stesse parole accoppiatecioè del pensiero che esprìmono.¿Cosa infatti avrebbe valso ripètere a que' bacalari per la millèsima voltache la lingua naque prima della scrittura e l'una e l'altra innanzi la règola?¿che l'Italia stette benìssimo senza gramàtiche tre sècoli buoni e cisarebbe potuta star sempre? ¿che quelle clàssiche eleganze da essi additate amodellocapestrerìe come chiamàvanle con vocàbolo affatto degno dellaloro parlatanon èranoil più delle volteche solecismi solenni (nè noi cene scandolezziamo) maggiori assài di quelli che possa creare un originalestilista? Eancora: ¿che avrebbe giovato ricantar loro sul motivo di Orazio (utsylva fòliis ecc.)che un idiomacome qualsìasi altro mortale fruttoèdestinatose non spègnesi in germea percòrrere l'intero suo ciclo fino allamaturanza completafino alla conchiusiva caduta dall'àlbero della vitae chel'ùnico mezzo di evitargli una ràpida morteè di trasfònderglicontinuamente umoreimitando Danteche colla falce del giudizio mieteva daogni sottolingua italiana ed anche non italiana le spighe della nazionalefavella? ¿che avrebbeinfineservito provare loro statisticamente che non ètanto la qualità della materia impiegata quanto l'ingegno di chi la foggia ecoòrdina che fà l'eccellenza di un'òpera d'artecosicchè alla domanda -qual sia la miglior lingua - si può sempre rispòndere: leggete Shakspeareèl'inglese; leggete Rìchterè il tedesco; è l'italiano con Foscolo; è ilmilanese con Porta?

Ripeto: non avrebbe giovato ricordar loro tantopoichè eravano sperare che gente la quale non s'impensieriva che dei mattoni linguìsticisi accorgesse chetutti insiemetendèvano a rappresentar qualche idèaaformare un letterario edificio. Interamente quindi perdutoper essisarebbestato quanto ho già detto e quanto sto quì per soggiùngere a titolo di buonamisura.

E il contentino è questo. Pochi tra i grandi autorigloriadell'umanitàhanno schivato le ire dei crìtici loro contemporanei tentanti diimpor la cavezza al genioe quasi tutti si vendicàronodannando i lorzoiletti all'eterno ridìcolo. Orastà il curiosìssimo fattoche quelliautori sìano appunto i più spesso mostrati ad esempio dai successori deiberteggiatia volta loro da berteggiarsi. Edavveroquel venosino col qualela falsa crìtica fà tanto chiassovolteggiandolo minacciosa intorno allatesta dei novellini scrittorila ha già bastonata senza misericordia; quelfiero ghibellino cui essa domandaper ogni suo pasto da orcoe zanne eventrìcolol'ha fatta più volte tremare colla maestosa sua vocecome quandodisse «òpera naturale è che uom favella- macosì o cosìnatura lascia -poi fare a voi secondo che v'abbella.» Volendo quindi scoprir la radice di talestranezza nè potèndosi crèdere che il ricordo de' buffetti e de' calci siaamàbile a' crìticicom'era a Rousseau quel del castigo di mademoiselle Lambercierbisognerà ricercarla e la troveremo fra le astuzie stratègiche. A guisainfatti degli àrabi che coi cadàveri inquìnan le fonti dei loro nemicimìrano i crìticicogli autori mortia spègnere i vivi.

Pur non rièscono. La treggia non caccierà più il carro dalmondo nè il carro la diligenza nè la diligenza il ferroviario convoglio. Ilprogresso che essi combàttono col tardo archibugio a pietraloro risponde coicèleri Vètterlicome lor rispondeva mediante quel rudimentale fucilequand'essi ostinàvansi a maneggiar l'arco e la frecciae coll'arco quandoancora loro arme era il selcio. La umanità procedette sempre a dispetto d'ogniaccademiad'ogni senatod'ogni governo. ¡Guài se il passato avesse piùforza dell'avvenire! Saremmo tuttora alla lingua dei lupi e degli orsi e ad unostadio di civiltà affatto corrispondente.

Maseppelliti questi morti di hastatiecco i prìncipesqui consùrgunt ad armapùntano il loro schioppetto e fan cecca. Sono essigli incettatori della nazionale moralitàuna compagnìa in lamentazioneperpetua - di cui fanno parte i violacei predicatori che ventilàbran dalpùlpito i vituperi più concupiscenti contro la concupiscenza e le ascoltatriciloro ammirantile baldraccheche han messo insieme bastèvoli soldi percomprarsi il rossetto della castità; fanno parte i loschi compilatori di virtùper il pòpolo a dieci centèsimi la dispensa e i gazzettieri che collasifìlide cristallina alle labbra sermònano di pudicizia e le mamme affannate adifèndere le orecchie premaritali delle loro figliuole da ogni sussurroimpudicosalvo a lasciarvi precipitar dentro un mondezzajo di robanon appenaquelle figliuole sìen giunte al legìttimo stato di comporre adulteri; fannoinsomma parte tutti coloroi quali veri stradini della nettezza pùbblicapelsudiciume - gìranosollevandoper così direla casta frasca di vite allestatue per poi urlare «¡allo scàndalo!»

Il realismo in arte è il bersaglio contro il qualescàgliano essi i lor giavellotti ed è insieme lo scudo con cui sen ripàrano iloro contrari. Perocchèin questo balordo argomentouna guerra s'è accesache più fiera non suscitàrono le due secchie rapitela bolognese e la grecauna guerra a cui paragone sembrò quasi sensata quella di buffa memoria deiclàssici e dei romàntici. Vuolsi che essa scoppiasse al primo apparire incommercio delle fotografìe colorate di Zola. La gàrrula turba de' letterati sipartì allora in due campi - diciàmoli megliostàbuli - e gli uni sibuttàrono tosto a ginocchi ed accèsero i lumi dinanzi a quella forma di arteperchè imaginàronsi che fosse nuovagli altri si pòsero a tirar sassatecontro di essa e a fischiareprincipalmente istizziti da quella riputazione dinovità. Il realismointantostava a guardare dal libro di Omero.

Ma il bello èchea confòndere maggiormente le idèeefautori e avversaristroppiando il senso di quel frasone empiboccaincapàronsi di fargli significarelà a tìtolo d'onorequà di disdoroquella parte soltanto di letteratura che studia e descrive le voluttà dellacarne e le turpitùdini umane. A chi si debba tale spilorcia interpretazione nonsappiamo. Sappiamo solochenella realtàse c'è il male colle sue innumerifrontic'è pure il bene in tutti i sorrisi suòi. Al realismo o verismopòssono quindi appartenere con pari diritto tanto le dipinture di una cloacadi un ubbriaco che recedi cani che s'accòppiano in piazzaquanto quelle diun fragrante rosetodi un eròe che per la patria s'immoladi un uomo cherespinge l'amplesso della donna del suo benefattore. Nella realtà vi ha ilbordello in tumulto e la pacìfica casa: Protàgora abderita che tutto vende edifende a seconda del prezzo e Giannone che muta continuamente paese per nonmutare opinioneeper seguire la veritàè da tutti perseguitato. Dellarealtà fanno parte integrante e l'illusione ed il sogno e la fede e lo stessoidealismo.

Sarebbe quindi eccellente partitochea stabilire itèrmini della questiones'incominciasse a cambiare il nome alla questionemedèsima. E però si riserbi a luogo più acconcio quella parola di«realismo»fatta per imbrogliaree se ne addotti una di significato piùcerto. Per conto nostronelle trè arti non sappiamo vedere che una questionesolaquella del brutto e del bellosenza riguardo nè a scuole nè a scopi. Seci sono però buontemponi che vòglion scaldàrsela per quel letterarioatteggiamentoche ècome affèrmanodiretto ad vìrgam erigèndam¡si sèrvano! Àbbiano in ogni modo la compietezza di scègliere la giustaparola e non ci pàrlino d'altro che di «carnalismo.»

Senonchècarnalismo non vuole ancor dire immoralità. Se leleggi divine impòngonose le umane favorìsconole une e le altreimprovvidamentela procreazione della specenon vi dovrebbe èssere arte piùleggìttima e più commendèvole di quella che risveglia ed instiga la fojageneratriceocome dicèvano i nostri antichilùmbum ìntrat.Tuttaviac'è un inconveniente. Le òpere letterarieanche le piùscollacciatequando raggiùngono la perfezione non commuòvono che il cielodell'ànimo. Si potrèbbero esse paragonare «ai fidi incendi per le innocuetorri» delle rappresentazioni teatrali. La voluttà intellettuale sòffoca lacarnale. Una volgarìssima serva irriterà e sazierà meglio la libìdine tuache non una Saffotestimoni Faone e Nicolò Tommasèo. Misurati col qualetermòmetrogli epigrammi così-detti osceni di Marziale ed i sonetti di Portache si chiàmano inèditi anche dopo le cento edizionisègnano un alto gradodi moralità senza confronto più alto degli sconcìssimi - perchè malfatti -libèrcoli approvati dagli alti e bassi Consigli scolàstici - NovelleesemplariFior di virtù (e di stolidità) ecc. ecc. - fonte di lucro aimaestri e di ebetismo ai discèpoli.

Pur non si pensicon ciòche chi scrive applàuda a duemani al rubensiano delirio di polpe e di sguardi procaci che ha invaso lascolaresca del giorno fatta ubbriaca da mezza bottiglia di stecchettina gazosa.La smania sessuale è in naturaha dunque diritto di avere anch'essa la suasede nell'arte; l'invito del sesso però non forma tutta la vitamanchèvolequindi sarebbe quella letteratura che si occupasse esclusivamente (perdonate lafrase) dei propri ìnguini non istudiando che di rènderli appariscentinèpiù nè meno dell'altra che si cappona per procurarsi una voce di àngelo. Chese in questa desinenza in A la nota lubrica ha il sopravventoa mèpreme avvertire gli egregi lettori: I° che l'autore non ha con essa seguito latraccia de' suòi giovinetti colleghima hanno questi piuttosto seguita la sua.La desinenza in A venne infatti composta nel 1876allorchè del rosariodel carnalismo non èrano state ancor snocciolatealmeno in Italiache pocheavemarìe e non si era ancor giunti ad alcun paternostro. 2° che l'autoreinnanzi concèdere al pùbblico questa sua sgualdrinella figliuolagliene avevagià presentato trè altre morigeratìssime. La cifra di un uomoe màssime diuno scrittoreè formatanon da un ùnico nùmeroma da parecchi. Cosìcom'eLa desinenza in A - libro non certo per monacanda - rappresenta lagiovinezza dell'autoregli errori della poca sua carneil suo squillo dibicchiere nell'orgia. Ma la giovinezza gli è oggi completamente sfiorita. Lapenna che segnò quèi ritratti donneschi è rotta per sempre. Bene stà. Ognistagione il suo frutto. Fanciulloscrissi d'infanzia e vi offersi L'Altrieri;adolescentedi adolescenza e vi diedi l'Alberto Pisani; giòvinedigioventùed èccovi La desinenza in A. Se la vecchiaja non mi saràcome sembracontesascriverò cose da vecchio - metafisici soliloquiarcheològiche dissertazioni - ¡chissà mai! anche ascètica. Letterariamentealmenoil Dossi non si falsificherà mai.

I cavalieri intanto e le damela cui virtù è sì fragileda temerne lo scoppiopur coll'esporla alla temperatura di qualche grossoproverbio da fin di tàvola (sìmili in ciò a coloro che per gli eccessiviriguardi contro le infreddature tròvansi perpetuamente nello stato più propriodi buscàrsene) e si spavèntano all'ombra solo di quelli onorèvoli... - piùonorèvoli assài di parecchi votanti nei Parlamenti - ... membri che hannocome scrive Aretino a messer Battista Zatti da Brescia«fatto i maggioriuòmini del mondoi Michelàngioloi Tizianoi Raffaelloe appresso loroipapigli imperatori e i rè» nonchè gli stessi che ne pìglian vergogna-considerinodicoquesti esimii signori (del che caldamento li prego) come nonsìavi còdice che li òbblighi a comprar nè il presente nè altro libro delgènere suoequel ch'è piùa continuarne la compitazione quando siaccòrgono di che si tratta. Chi ama le comedie prive di sesso ha i teatri suòiha i burattinidove può assìsteresenza perìcolo alcunoda quelloall'infuori di addormentarsianche al ballo. Per i pòveri d'intelligenzaprovvede la caldaja dei frati; c'è una letteratura estesìssimanientemeno cheil novantanove per cento di ogni biblioteca. Ne profìttino dunque. L'aqua noncosta nulla e rinfresca. E sedopo ciòsi ostìnano a spizzicare le miefrolle pernici in salmìper poi lamentarsi di qualche doloruccio di ventre¡colpa loro! Questo libro contienecertovelenima anche i veleni sonoùtilibasta sapere dosàrselicosicchè l'arte della salute - intendiperburlala medicina - fonda in gran parte su di essi.

Eora ¡avanti i signori triari! stavo per dire «trepiedi.»Sono la schiuma... ¡pardon! la panna dei crìtici. Hannopressochètuttifatto studi profondi - di che non si sà - fuori d'Italialà nei paesiin cui le vòcali cèdono alle consonanti e l'uva al lùppolo; le loro sentenzele spùtan dall'alto delle càttedre o di que' mucchi di residui cibari chehanno nome «riviste o rassegne» mensili o quindicinalinon abbassandosi cheraramente a ragionare spropòsiti ne' fogli quotidianidiventatiloro mercèpiombo in foglia. Costoro non pèrdonsi nelle scaramucce delle parole nè siformalìzzano di qualche frase che mostri il rosato ginocchio più delle altre.Ùnica loro preoccupazione è lo stilesono gli intenti dell'autore.

Orail primo capo di accusa contro mè di tali crìtici inmitriaè quello che io scriva troppo avvolto ed oscuro. «Diàmine» sèmbranoessi dire «la più parte degli altri scombìccheracartabasta un'occhiata peraccertarsi che non vàlgono nulla; costùi bisogna lèggerlo duetrè volteprima di persuadèrsene.»

Ebbenevoglio èsserecome nessuno piùarrendèvole;voglio per un istante dimenticare la pregiudizialese la incolpata oscuritàdipenda dalle idèe dell'autore che non sanno farsi vedere o piuttosto dagliocchi de' leggitori che non arrìvano a percepirle: completamente mi càricodell'asserito peccato di una bujezza sì favorèvole ai lumimainsiemedomando: ¿quale ne è la càusa? Una letteraria virtùmièi signori - ladensità delle idèe.

Ho detto una virtù; pur tuttavìagiacchè sono sulcèdereaccorderò anche che tràttisi semplicemente di un bel difetto.Posseggo due scuseperò - e uno scusino: l'influenza del tempo nel quale ètuffato il mio corpoil corpo che assièpami la volontà ese ciò non vi parsufficientequesta medèsima volontà mia.

Eprendendo le mosse dal tempotutti vèggono - meno icrìtici dalle acute pupille nella collòttola - come sia oggi impossibile ad unautoreche al manubrio dell'organetto preferisca l'arco del violinodiscrìvere precisamente come quando il patrimonio delle idèe era di gran lungapiù scarso dell'attuale e pisciàvasi chiaro perchè non si beveva che aquacompreso il vino. Bastava allora di esprimere ciò che il cuore individualsuggeriva e la lingua materna imboccava; ciascun paese vivevaper conto suodei frutti esclusivi del proprio suolo e del proprio pensieronè più nè menodi Ippia sofista - vero sìmbolo di quell'època - cheinsomaràtosi nelprincipio che ciascun uomo costituisce una completa repùbblica a sèanzi unintero universosi facèa colle sue cìniche mani tuttodalle ciabatte almantellodal letto al pranzodai mòbili alla moglie. Senonchèoggisimutò stile: siamo figli di esploratorie viaggiatori noi stessiein quellamaniera che da occidente ad orientedal polo antàrtico all'àrticos'incròcianoe mèscolano tutti i prodotti del globotra cui màssimo l'uomogìran leidèe più ancora liberamente e si spòsano e ne crèano altreprolìfiche comeinfusori. È una tendenza generalequestache nè le polìtiche tariffarie edi cannoni dei governantinè gli ohimè dei grammàtici e gli esorcismi deipreti sanno o potranno frenare. I mercati del mondo (in gergo ufficiale«Stati») gràvitano a fòndersi in uno solo. Si và a tutto vaporee giàpuò dirsi a tutto elèttricoverso il comunismo più equo e la più ordinataanarchia.

La universale e fatale tendenza tròvasi poinel mioinfinitesimale pianeta del corpopreparata la sdrucciolina da càuseparticolarianzi orgàniche. Difattile doppie porte per le quali lesensazioni pènetrano nella casa dell'ànima (rètinetimpaniecc.) e chenella maggioranza degli uòmini sono pressochè ugualitantochè le duecorrenti della percezione èntrano in essi simultaneamente e tòccano con pariscocco nel campanello della coscienzain mè sono affatto assimètrichedondeun risultato opposto. Nè le sensazioni rivali che vèngono a mè dai varioggettigiùngono a combaciarsi perfettamente e a dare un sol squillo nellospìrito miofermentando in esso un miscuglio di ali e zampe e teste d'idèeversàtovi da letture affrettatecopiosedisparatissime. Era forseoriginariamenteil mio cuore un ùnico specchiomadalla memoria oneratosispezzò in centomila specchietti. Il troppo oliodirèbbesiaffogò lostoppino. Se nel bujo notturnonei preludi del sonnomi si rierge talvoltal'idèa - come la colonna di fuoco che guidava gli ebrèi - luminosacomparsoil soleio più non scorgo che fumo. Vero è che nel fumo perdura la fiamma echea forza di gòmito e pòmicela idèa riaquista splendoreocome diVirgilio e delle orse si scrisse«fòrmam post ùterum lingua magistrapàrit»ma ciò non avviene che a prezzo di transazionidi sottintesidiripieghicosicchè il mio stile potrèbbesi bensì assomigliare ad una donnasapientemente abbigliatanon mai ad una bellissima vèrgine nuda. In questo miostesso discorsoin questo stesso periodo - da mè lasciati più greggi delsòlito - i lettori hanno prove a biseffe di ciò che affermo. Si aggiunga lapreoccupazione affannosa di stipare quanto più senso si possa in ogni frase (perocchèsempre mi parve atto di letteraria disonestà quello di vèndere al pùbblicoper libri scrittivolumi di carta tinta d'insignificante inchiostro); siaggiunga lo studionon meno morbosodi cacciar dapertutto maliziaaffinchèse la stoffa od il taglio del pensiero non valevalga almeno la fòderae nonfarà meraviglia se il modo dello scrivere mio debba inevitabilmente mancare diquella tagliente sobrietà che forma la caratterìstica della espressione deigrandissimi ingegni e de' grandissimi stolti.

Ma della complicazione del mio attuale pensieroc'èun'altra càusapur fìsica. Se colla continua ed ostinata meditazioneilcervello consegue la forza di ascèndere e la sicurezza di aggirarsi pei greppipiù vertiginosismarriscespessoquella di camminare in pianura. Guadagnandole aliperdeper così direi piedi. Il proverbiale esempio del matemàticochesciolti i càlcoli più sublimisbaglia la somma del domèstico conto chegli propone la cuocaè in règola perfettamente colla verità ed èapplicàbile a tutte le arti. È noto come uno de' màssimi agenti del pensierosia il sanguela virgiliana purpurea ànima. Orala irritazioneche l'ostàcolo tra la volontà nostra e la cercata idèa pròvoca ai nervidell'intelligenzainvitaattira al cervello il flusso sanguigno necessario adabbàttere lo stesso ostàcoloe la idèa si svela. Al ragazzo che fà i suòiprimi italianucci è sufficente irritazione nervosa la ricerca delle parole dicui riveste la traccia temàtica dàtagli dal maestro; all'adolescentelacaccia alla rima ed all'armonìa del verso colle quali ripete le ripetizioni dimoda; al giòvaneche aspira alla artìstica originalitàlo sforzoprima dievitare le idèe e le forme troppo stancatepoi di scoprirne di nuovepoiancora di raddoppiaredi triplicare i sensi delle sue frasifinchèvievìamoltiplicàndosi i dièsis e i bemolle e gli altri accidenti in chiavearrivi aquella concentrazionea quella ingegnosa oscurità di stile che fà la deliziadegli intelligenti e la disperazione del pubblicaccio. Orail sottoscrittocheha passato come ogni altro autore non condannato allo sgabello dellamediocritàtali staditròvasi appunto a quello che si potrebbe chiamare «ladistillerìa della quintessenza.» Le difficoltà cheuna ventinauna decinadi anni primabastàvano a rieccitargli la Vènere intellettualeoggiperchèsuperategliela làsciano inerte. Indicàtegli un masso di pòrfido letterarioei ne saprà far balzare una statua; consegnàtegliper una burocràtica scarpail necessario cuojo asinino già tagliato e il puntarolo e lo spagodarà puntisvogliati e voi rimarrete a piè nudo.

Confesserò tuttavia (ed ecco la mia scusa aggiuntina) comeallorquando mi accorsi che non avrèi potuto per nessun verso fuggire ilcrescendo della complicazione stilìsticalo affrettài e mi vi abbandonàituttomirando solo di convertir la cattiva in una buona venturacome fàdella macchia che gli goccia impreveduta sul fogliol'aquarellista. Everamentel'originalità in arte ha più spesso radice in difetti che non invirtù. Stia certo il lettore chese di un'oncia soltanto della lìmpida mentee dell'amàbile filosofìa di Alessandro Manzoni o del sicuro ànimo edell'ampio umorismo di Giuseppe Rovani avessi potuto disporrenon mi sarèicontentato di fare il geroglìfico Dossi. Gli èdel restouna fatalitàcronològica alla quale nè io nè i mièi fratelli in letteratura sapremmosottrarci. Trascorsa la primavera parinianala manzoniana stateil rovanianoautunnopiù non ci avanzadel letterario anno che stà per finirese nonl'inverno. Spremuta l'uva di Alfieridi Monti e degli altrifatto il vin diManzoni e di Giustifatto il torchiàtico di Aleardidi Pratidi Rèvere ed'altrettalipiù non rimane da fabbricarsidell'ùltima svinaturache l'aquavite.Lambicchiàmone dunque in buon'ora. Ci servirà di sole invernaleeriscaldateda essale generazioni novelle prepareranno con impulso gagliardo il terreno edi tralci per le vendemmie future.

Tornando a noio piuttosto a mèio non mi lagno niente delnùmeroquale si siache estrassi nell'ùltima leva della letteratura paesananè dell'èsito degli sforzi coi quali tentài di assecondare e completarmi lasorte. Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la perdizione de' librimièi. Uno invece a viluppiad intoppia tranelliobbligando il lettore aprocèder guardingo e a sostare di tempo in tempo - parlo sempre del nondozzinale lettore ossìa dello scaltrito in que' docks di pensiero che sichiàmano e Lamb e Montaigne e Swift e Jean Paul - segnala cose che una letturaveloce nasconderebbe. Per contraccambiole idèe o sottintese o mezzo accennate(quel pleou emisy pantòs che Esìodo dà come règola d'arte) fanno sìch'egli prenda interesse al libroperocchèinterpretàndologli sembra quasidi scriverlo. Nè per altra ragione le sciarade ed i «rèbus» mantèngono amolti giornali il favore del pùbblico. Aggiungi che una sìmile illuminazione atraverso la nebbiafacendo aguzzare al lettore la vista dell'intellettononsolo lo guida nelle idèe dell'autore assài più addentro che se queste gli sifòssero di bella prima sfacciatamente presentatema insensibilmente gli attirail cervello - a modo di que' poppatòi artificiali che avvìano il latte allamammella restìa - a meditarne di proprie. In altre paroledall'addentellato diuna fàbbrica letterariaegli trae invito e possibilità di appoggiàrvenecontro un'altra - la sua - eda lettore mutàtosi in collaboratoreènaturalmente condotto ad amar l'òpera altrùi diventata propria.

Ed è al medèsimo scopo di farmi lèggere con attentalentezza che dèvesi ancora attribuire la mia ripugnanza di usare parecchispedienti - meglio dirèi ruffianesmi - i qualisecondo l'opinione de' crìticie il gusto della platèacostituirèbbero i requisiti essenziali della formaromànticaprimo tra tutti l'intreccio che appassiona e rapisce. Quanto hodettotoccando dello stile che più conviene a libri della pasta de' mièipuò appressapoco ridirsi parlàndosi dell'intreccio. Non nego che una fàvolaconcitatadensa di colpi di scenairritante la curiositàincalzante laletturasia la maggiore fortunaanzi la dote sine qua non per unromanzo sprovvisto di ogni sapore di stile e d'ogni potenza d'idèa: là ènecessario infatti che il leggitore percorra a rotta di collo il volume eprecìpiti al fine prima di accòrgersi che l'autore è più di lui soroinghiotta per così dire il cibo senza aver tempo di rilevarne la insipidità.Nei libriinvecein cui gli avvenimenti narrati sono un mero pretesto adesprìmere idèe ed una occasione di suggerirnedeve l'intreccio sì esìsterema non troppo appariredee contentarsi di farenon da ricamoma dacanovaccioadducendo carezzosamente il lettore sino alle ùltime pàginequalecòmodo cocchio da viaggio che permette di osservare il paesenon giàtraèndovelo turbinosamente quale rozza infuriata. E sìmile intreccio modestonon parmi che manchi in questa Desinenza in Apoichè le sue trè partifòrmano gli atti di una sola tragicommedia La Donnae poichè imedèsimi personaggiche noi conoscemmo bambini nei primi capìtoliliritroviamosalvo quelli che perdiamo provvidenzialmente per viagiòvani nellescene di mezzovecchi nelle estreme. Oltracciòvi ha un altro legame piùìntimoche si tentò di celare nel nesso tra la natura ambiente cosìdetta«morta» da chi non ha fino l'orecchioe la storiail caràttereil«momento» degli attori che ne son circondati. Chi conosce il segreto dei pintiromanzi di Hogarthcomprenderà le mie scritte pitture. Il mòbilelatappezzerìala piantavi aquìstano un valore psìchicovi complètanol'uomoeda sèmplici attrezzi teatralivèngono a far parte integrante delruolo dei personaggi. Gli è il coro dell'antica tragedia ridotto a formamoderna. D'ogni intreccioperòquello che credo di non aver trascurato e cuitengo massimamente è l'intreccio fra il mio e l'ànimo de' lettori;... alludosempre ai non irosi e non disattenti lettoricioè ai pochi.

Come vedete da questa ultimìssima frasequì non si tira diprezzo colla signora Crìticaallorchè nota che io perdo - per ostinatapremeditazione - la gran maggioranza del pùbblico quella maggioranza che nonsà lèggere se non i libri scritti a caràtteri di ditta. Osserverò tuttavìadal canto mioche tale pèrdita non è poi così gravecome asserìsconoperchi aspiri ad arricchire meno le case editrici che la letteratura. Il pùbblicodi un letterato non è già quello dell'uomo polìtico e del canterino(celebrità spesso e l'uno e l'altro della gola) pei quali è indispensàbile efolla e contemporaneità di fautori; non ne occòrrono a lui nè migliajanècentinaja e neppure ventine in un tratto: gliene bàstano pochiuno anchepurchè sìano degnia loro voltadi lode e purchè si succèdano - sentinelled'onore del nome suo - fino al più lontano avvenire. La votazione per ladurèvole gloria di un artista non si chiude in quel medèsimo giorno in cuiviene propostama le urne rimàngono aperte nei sècoli. Se si contàssero gliintellettuali custodi e inaffiatoriinsino a oggidella fama di Dantenon siarriverebbe certo alla grossa cifra della sine nòmine plebs che siaccalcava estasiata intorno a passate o grugnisce ora giojosa intorno a viventivolgarità. Senonchèl'applàuso della moltitùdine scompare colle mani chel'hanno prodotto e anche primamentre il làuropiantato dai pochiintelligenti sulla tomba del meritèvole e con sollècito amore educatononcessa di crèscere e si rafforza cogli anni. Ciò che crea la modala moda purspazza vianè oggi alcuno più sosterrebbe la burattinesca trucità dei giàcelebrati romanzi della Radcliffe nè la patètica pappa delle novellefuriosamente già lettedel Chiaricome domani non si soffrirà più danessuno la grandìssima parte del bozzettismo del giorno. Se è dunqueassiomàtico che un libro trovi tanta maggior grazia presso l'uomo d'ingegnoquanta minore ne incontra presso il citrullo e viceversasarà necessarioevidentementeper conquistare una sùbita popolaritàdi piacere ai goffiossìa di scrìver goffàggini. Stìeno però tranquilli i pubblicisti che hannomissionedirèbbesidi alimentare il cretinismo italiano; nè io nè gli altrimièi migliori colleghi saremmo mai rei di abigeato di qualche loro lettore. Perconto mioin arte sono aristocraticìssimo. Come Frineio non ambiscoall'omaggio che dei sovrani... dell'intelligenza. Nulla più mi spaventa diquell'unànime battimani che mi farebbe domandar con Focione: ¿sy dé poutì kakon légon émauton léleoa?

¿Parlo molto di mènon è veromièi adoràbili crìtici?¿Che volete? M'insegnaste voi stessiche per fare o per dire qualche cosaalmeno mediocreè d'uopo tenersi nell'orticello che si conosce men male: oraio descrivo mècioè la persona che m'è più nota. ¿Perchè non videscrivete anche voibuoni crìtici? Si vedrebbe alla prova chi fà men ladrafigura. Comunque; questa «subiettività» che vi dà tanto sui nervi e che stàinfine di casanon ne' mièi librima nelle sole lor prefazionidaconsiderarsi come lettere ìntime al pùbbliconon ha nulla d'ingiuriosoch'iosappiaalla individualità altrùi. A parte che quì si tratta di unsubiettivismo che riguardanon le circostanze occasionali di un corpoindifferentìssime per tutti gli altrima l'essenza di un'ànimaproprietàuniversale; a parte che la letteraria coscienza è sìntomo di virtùnon diviziogiacchè l'occhio dell'artista che non scorge se non il suo esterno èocchio che poco vedeegli è sempre - parmi - più cortese ed amàbilenelloschiùdere la gallerìa delle fantasìe nostredi non imitare que' padroni diquadri che si ritìrano sultanescamenteabbandonando ai servi i visitatoribensì di accompagnar questi noi stessifacendo loro da cicerone. Ciònonfosse altrotestìfica che io non sono poi quel trappistaquel Simeonestilitaquell'antropòfago di sè medèsimoquell'ùrsus spelaeus chepiaque a certunicollo stòmaco grave di anguillasognarmi. Voi vi fateocrìticiuna sbagliatìssima idèa di quello che sia la società umanaritenèndola tutta compresainsieme alla fama ed al restonei pochi metriquadrati dei giornalìstici uffici che smèrciano i vostri velenisacri asilial di fuori de' quali non sarebbe che «lido e solitùdine mera.» Ben altrovasta è la umana societài cui giorni si còntano a sècolii cui membri s'intìtolanopòpoliil cui chiacchieratojo è il mondo. Per conseguiretra essanotorietàlascio a voi di tentare i vostri «invescativi o coercitivi» comeli diteimpiegàndovi tutta quella provvisione di màntici e ruotedi olii edi untidi zùccheri e incensidi cui disponete. Anch'io miro alla Fama ma apatto solo di giùngerla all'aria aperta e colla trionfale quadriga de' cavallibianchinon sul carretto dell'immondezza di Checconon sul barocciogiallo-nero ed infangato di Cèsarenon sulle penne rubate e sempre vendìbilia chi più paga di Ruggero.

Per finirlao mièi crìtici astiosiio vorrèi lusingarmiche niuno di voiabbia letto questa Desinenza in A nel suo giustomomento. Non succhia il midollo di un libro se non il lettore il quale si troviin una disposizione di nervi consìmile a quella in cui erascrivendol'autore. Il gran Mìlton è da lèggersi la domènicaquando si accùmulanell'atmosfera il religioso uraganofatto di nubi d'incensodi cerei lampidiarmònico tuono di òrgani; Leopardi in una giornata piovosacolla disgrazia aicalcagni e la dispepsia allo stòmaco; Cattaneo in un'àula parlamentareassente lo sfibratore Deprètis; Carducci sotto un arco romano non medicato daldottore Baccelli; Correnti fra le stoffe preziose e le rarità antiquarie; Hugoal mare. Cosìè nell'època del malincònico e verginale erotismodell'adolescenza che più si comprende la Vita nuova del giovinettoAllighieri ed è nell'ora del disinganno amoroso che il presente volumesembrerà fàcile e piano. Nè a quest'ùltima ora rado pervèngono gli uòmini;anzi tutti vi tòrnano quante volte ha loro sorriso da un fresco aspetto didonna l'inganno. Ma una illusione ancora maggiore è la mia che crìticimestieranti rilèggano un libro che han giudicato una volta e indùcansipersoprasselloa cambiar di parere. Quando uno tra essi lanciò la suasentenzietta spietata¡non c'è più cristi! la ripete stucchevolmente pertutta quanta la vita del condannato e anche dopo. Imitazione quindi perfetta èla crìticadella misericordia divinaprivilegiata inventricea quantoinsègnano i pretidella pena che non ha fine.

Pienamente dunque d'accordo co' mièi avversari in ciòcheniuno di noi restò persuaso dei ragionamenti dell'altronon io de' lorononessi de' mièi; ritengo per sempre finita la nostra cartacea battaglia: sparsaè l'arena di penne e di matite spuntatesparsa è di pozze d'inchiostroe Ladesinenza in A entranon troppo sconnessanelle sue seconde nozze colpùbblico. ¿Ma che? ¿che è mai questo sciame di donne che m'assal da ognilato? Come i cimbrisconfitti da Marioche si traèvano seco il lor feminilebagagliobèllica impedimentacome i bracati persiani sull'usta deiquali si affollava la bagascerìa di tutto l'imperoi mièi crìtici sirimorchiàrono appresso un nùvolo di gonnelle - dalla seta alla cotonina -ballerine ed avvocatesse (ambo oratrici coi piedi)trecche toscane e maestre discuola (ambo appendici de' clàssici)sorelle di caritàmogli a nolo ed altreparenti posticcesartebaliemodellecantinieretelegrafistefilandiere...un cibrèo insomma di fèmminache dopo di avere assistito ozioso alla pugnacerca ora di riappiccarla coi denti e colle unghie. Colùi checavalcandosoprapensieri nella romana campagnacapitò qualche volta in mezzo a un'orda diporci e in quella grufolante e minacciosa marèastette minuti che gli pàrveroorepotrebbe ùnico penetrarsi di tutta la gravità del mio caso. ¿Comesalvarmi? ¿come superar tanta Eva? I lombi pure di Pròcolo e di Vittorioimpallidirèbbero.

E una matronaun quintale di ciccia che porta gli occhialidella filosofia e il busto della lògica e il guardinfante dell'oratoriam'investe di una mitraglia aforìsticasbuffando: «Tutto quanto si guarda dauna sol parte si vede male. Chi ingiuria la donnaingiuria pur l'uomo che ne èil frutto peggiore. Chi non sà perdonareè di perdono non meritèvole... ¿Seti credevi in piena ragioneperchè tanta ira?» - aggiunge iratìssima.

«L'evo dell'assolutismo maschile non è più» - sentenziauna bella sveltina in elegantìssima toeletta forense (comechè appena laureatadai professori e dagli studenti dell'Università di...) cercando ingrossare lavoce con empirsi le profilate narici di tabacco rosa. - «Chiusa è l'età incui facevate a vostro profitto le leggidivorziàndoci ignominiosamente(consulta il Talmud) solo che avèssimo lasciato affreddare la zuppa ai carisposinipresumèndoci adùltere (vedi in Seldeno) sol che si fosse rimasteappartate con uomo che non ci era maritoil tempo di cuòcere un ovo. Ma ilnostro dito ha già tôcco la vostra tarlata legislazione. Noi riusciremo atutto. La persuasivadea della Tribunaè noi che l'abbiamo trovata. Tù lopuòi diretù stessoa cui favore la femminil parlantina seppe più volterinspirar la pazienza che il tuo laconismo avèa fatto smarrire a tuòicreditori e lettori...»

«¿E chi ti aperse i cieli d'amore?» domanda rimproveranteuna èsile e pellùcida vèrgine con un sospiro che tèrmina in tosse «¿diquell'amore che non muor maiperchè non si ciba di vivanda mortale? ¿Chit'insegnò la làgrima innamorataseme di perla? ¿chi piovve sul tuo stèrileingegno quella luce lunare della mestizia che feconda i pensieri? ¿a chi devi iprimi vagiti poètici?...»

«¡Ingratissimo!» esclama con roca voce un composto dicipriacold-cream e pinguèdine floscia che ancor tenta di spacciarsiper donna«chi smorzò la tua smania amorosa? ¿chi saziò le tue labbraaffamate? ¿Non più dunque ricordi le cento volte che abbracciasti queste miegiarettiere chiamàndomi Dea perchè mi slacciassi alla svelta? ¿nè la fogagiojosa con cui pagavi il mio lusso? ¿nè l'intima soddisfazione che tiprocuravoscarrozzando con mè per la città invidiantetù bruttìssimo alfianco di una bella mia pari? ¡Accidenti alla memoria tua!»

«¿E chi» subentraironicamente soaveun pàllido voltotra due càndide ali di telastrizzàndomi maliziosamente l'occhio per poitosto velarlo di pudica palpebra«vegliò lunghe notti al tuo letto e al tuogèmitoquando tornasti piagato dalla guerra d'amore e fasciò la tua doppiaferita e ministrò sul tuo fronte gèlida aqua e baci scottanti?»

«¿E chi» continua con uno strillo acutìssimo un'ombracenciosaverso mè roteando il suo rosario di bosso«ha pregato per tè chenon accendevi lumi a San Rocco... dopo di averti servito da fida...?»

«¿Mi riconosci tu?» interrompe una machinosa fantesca coiriflessi dei fornelli nel visoindicàndomi con una mèscola e urtando in terragli zòccoli. «¡Sùpadrone de' tuòi stivaliridomàndami ancorase haifacciaque' broducci ristretti da sei capponi e dòdici ova con cui ti guarivodalle medicine che t'ingozzàvanoridomàndami que' pranzettini di molti volumiche ti mantenèvanocome dicevil'ingegno tuo e la stima de' tuòi amici...!»

«¿E il piacere che ti suscitài per gli orecchi? ¿e ilgusto che ti diedi per gli occhi?» esclàmano insieme due bàmbolegiojellatee piumatela prima con un trillo armonioso e un contemporaneo abbajamentocagnescol'altra con un ràpido lancio di gamba e uno strido di papagallo.

«¿E i bottoni che t'abbiamo cucito?» echeggiaochinescamente un coro di cameriereil petto pieno di poppe e di spilli«¿ele camice che ti stirammo? ¿e i caffè che ti abbiamo opportunamente recatisull'alba?»

«¿E i pedalini che t'ammagliammo?» ìtera un coro divecchie punzecchiàndomi cogli aghi di calza«dove li lasci?»

¿Che rispòndere? Dall'alto del Pègaso mioinutilmenteinquietocerco di pacificare la rumoreggiante follama ottengo l'effettoopposto. Senza pròinfattimi sbraccio a fare a tutte comprèndere che ognivita di artista è zeppa di contraddizioni tra lo scrittore e l'uomo e che peròio non sono (mi pròvino) quell'odiatore di donne che mi si rèputa; cheinogni modose nella Madonna a fresco del muro mio fu occasionalmente aperta unafognam'impegno di tosto murarla e di ridipingèrvene duebeninteso Madonne:invano prometto loropurchè non mi ammàzzino primadi cantare con entusiasmole loro lodichè se fu inneggiato alla pesteal cancroalla piva e a tuttiquanti i malannisi potrà benecredobruciare incenso rimato anche allafèmminache non ne è poi il peggiore: invano tento di sferrare alle nubi ilmio alato destriero - ¡pòvero Pegasuccio! - non può mòversi piùstrettodalla calca e spennato. E le iridiscenti sue penne già battibàgliano ne'cappellini delle mie inimiche.

«¡Rèndici tutto quanto ci hai tolto... fiori… baci...carezze!» è questo il grido ùnicofuribondoche si eleva alle stelle.

Mi ergo in arcione. È un mare di teste in motodi iratiombrellini e conocchiedi tesi pugni. Anche la vocequest'ùltima delle seiricchezze che le donne fanno pèrdere all'uomo (ingèniummòrespecuniavislùminavox) ho smarrita. Esulla chioma mi passa la fredda ombra di Orfèo.

«¡Restituisci i tuòi furti!» urla quel tempestoso ocèanodi Mènadicon un ondeggiamento in avanti.

Un'arma sola mi resta - càrica per fortuna. Con un sùbitomotola sfòdero.

¡Meraviglia! ¡incanto! Un bràmito di voluttuoso terroredi riverenza e di cupidigiadistèndesi di bocca in bocca. A mètorreggiantesulla sella pegaseaquelle innùmeri donnecome da un colpo di ventoabbattutecome Titania o la tèssala dama dinanzi al scespiriano Bòttom o allucianesco Lucio inasiniticàdono a ginocchi. Alla minaccia è sottentrata lasùpplicae tutte tutte invòcano la mia benedizione.

 

Roma27 settembre 1883

 

carlo dossi

 

 

SINFONÌA

 

 

A

TRANQUILLO CREMONA

MIO GLORIOSO AMICO

DAL CUI PENNELLO

RIBOCCANTE DI SOLE E DI AMORE

SÀTURO DI FINEZZEDI SAPIENZADI ORIGINALITÀ

IMPARÀI A SCRÌVERE

 

 

Sezione di una casa civile a due piani.

 

O Pùbblicoo solo mio Rèsi fà porta. Due lire etu sei in teatro. ¡Ànimo! risparmia un pajo di guantiun nastroun fioreunsacchettino di dolcie ardisci di non scroccarmi il biglietto. ¿Chi è maiche con un cinque-centèsimi in tascaavrebbe tanta impudenza di domandarepergraziaa un panattiere un panuccio? ¿non si pagafors'ancheuna sbornia cheti fà misurare la terra tra le fratellèvoli risa del pròssimo? ¿non si pagaun amplesso che ti lascia un rimorso? ¿non si paga perfino un rimedio che tiassassina il palatoepeggio ancoralo stòmaco? Pùbblico-Rètràttamialmenoti pregocome tratti il tuo cuocoil tuo sartoil tuo eròticoaraldo. Nè ti rattenga la pietosa paura di rivedermitua mercèa tiro diquattro e col battistrada. Lo spìrito costa molto olio. Siamo poi tropposignori per diventare mai ricchi.

¡Animo dunque! ti dazia e riempi il tuo posto. ¡Ve' chepoltrone! ¡Che molle! oh che molle! Se la tua regnante Maestà - come desìderoe spero e per essa e per mè - ha pranzato da papatroverà quì da disporreampiamente la intimpanita ventrajae potràcullata dal tepor della salasucciarsi il pisolino del chilosenz'altro timore da quello all'infuori dipèrdere la commediail che è forse un guadagno; seinvecela è favorita daqualche polposo vellicatore contattola Libìdine tua ha di che stare a tuttasua voglia stipata in un disagio agiatìssimo. E di piùnei ritagli di tempobadando un poco anche a mè e non isdegnando la tenue fatica di pensare ilpensatopotrài mantenerti sull'esercizio di quella lingua italianain cuil'innesto lombardo distrugge la scròfola fiorentinae ¡chissà mai!accattarti una dozzina di concetti ingegnosida improvvisare poi per tuòipropricosì facendo una figura men ladra nel mondo della parolae cosìconfermàndoti nella buona opinioneche tienisenz'alcun forsedi tè.

Ma eccosul limitaretra il vorrèi e il non possounarispettàbile dama. È una madreincerta tra le ghiotte promesse di uncartellone e la verginale apparenza di una fanciullache le stà braccio abraccio. ¡O non temasignora! Entri pure a cuor sciolto. Punto primo;la vera Moraleimmutàbileeternavà come il corso dei cielipel quale ètutt'uno che i càlcoli delle più prèsbiopi spècole bàttano giusto oderrato; và per suo conto e ben và. Non credache nè i libriccioli pelpopolino del castratello A**nè le commedie per le bimbe da latte dellamaestrùcola B**sìano proprio i Messìa da mantenere questa vera Morale nelsuo diritto camminocariàtidia parer mioche si dilòmbano a sostenere unamole che si sostiene da sè. I dieci comandamenticosì detti di Diohannopotutodopo Mosè che li scrisse con la minacciaèssere rispettatiappuntoperchè per amore lo èrano giàin altro còdice inscritti ben più duraturodel granito e del bronzo«la umana universale coscienza.» E ciò la signorafavorirà di accettare sulla parolachè a voler la ragione di ciascunaragionesi sciuperebbe a quintali la carta e a botti l'inchiostrocoll'attraente certezzachefatto il giro del globoarriveremmo alle spalledi quella prima ragione da cui s'era mossi. Non mi òbblighi dunque a nojarmiper annojare lei. Se la signora ama proprio la nojanon màncano biblioteche. Puntosecondo; Drammàtica e Letteraturanei loro rapporti colla Moralenàrranopiù quanto si fà o si è fattoche non insègnino il da farsi. In particolarepoi «teatro» vale divertimento; tanto è ciò veroche se l'autore a questosuo scopo falliscepensa lo spettatore a rièmpierlotraendo dallo stessotràgico orrore una piacèvole sensazione. Ma le sensazioni che scèndon da unpalco non divèntano mai sentimenti; tuttoin un teatro è fittizioper chidice e chi ascolta; tuttodai scenari alle ore. Per quanto omicidaunatragedia non fu mai rea di digestioni men buone ne' suòi spettatori ed attori.Nè andiamo a fidarci della larva dei visi. Niun uomo s'affanna davvero ogioisce se non della propria fortuna. Calato il siparioil sogno è finito;resta ciascuno qual'era - solitamente un briccone. Epunto terzo;concesso ancheo signoratanto per contentarlache la drammàtica oletteraria rappresentazione di un peccato qualunquepossa lasciare vestigianella cera ancor molle di un giòvane cuore¿perchè alloradomandonon neèvita Ella alla sua quasi-intatta palomba il domèstico esempioreale ediuturnoben altro efficace che non scolorite finzioni? ¿e quale casa - midica - non è viva accademia ai più torti costumi?

Veda quì. Ho un sacco di casettine quì (e lo scuoto) sulgusto di quellechescolpite nel pinovèngonci da Norimbergala città caraai fanciulli. Scèlgane unamadama. ¿Vuole che mèscoli ancora?... scelga purea suo agio... ¿Questa?.. ¡Brava! Ella ha saputo pescarsi un grazioso edifizioa due piani e senza bottegheabitazione certo di gentecheper mangiarenonha da far altra fatica che di recarsi il cibo alla bocca; di gente che noncòmpera cenci per vestima vende vesti per cenci; di gentein una parolapernecessità buonanon perciò virtuosa. Ed eccoPùbblico miola casa;ecco il pìccolo mondodove ciascuno possiede il vero suo regnoun regno incui si comanda a chi amiamo e ci ama: ecco il sacrario del fatale palladio dellapolìtica quietela pèntola; ose meglio v'aggradaquel camerino dove sistudia la parte da recitare in istrada e il genio ci appare in mutande e... Dite«basta»vi prego. Chè iodi tutta 'sta robafarò come di un pomo. Con ilcoltello della fantasìa la spacco. ¡Ve' che taglio nettìssimo!

Passeggiàmola ora col guardo. Il primo piano può dirsi uncannocchiale di stanze. Tutto è setavellutotutto è orocristalli. Malepotrèbbero i più tèneri piedi desiderare una maggiore morbidità di tappeti;male saprebbe una logorìssima schiena imaginarsi imbottiti più voluttuosamentecedèvoli. Eppurefuorchè i servitorinon ci si trova nessun altro padroneil che vuol dire che a meraviglia non ci si stà. Nel salottino della signorauna tenda è strappataun pajo di sedie rovêscieedi piùstelleggia nelvastìssimo specchio un gran crepocolpa forse quel braccialetto che innanzigli giace ammaccato. Fatto èche il padrone se l'ha scivolata di casa con unacera più muffa del consuetogualcendo un mazzo di polizzinie che la signorascarrozzò via con la vendetta nel volto; egliprobabilmente a pagare deidèbitiella certissimamente a farne. ¿Ma a che ti scalmanio marito? ¿a chespesseggi i picchii irritati del tuo nodoso bastone a corno di cervo? Tua moglieha sotto di sè quattro ruote: arriverà sempre lei per la prima... E laportinajala quale ritorna dal chiùderle dietro il cancellorianda la segretaconsegna delle bugìe che le lasciò la padronae ne fa sùbito parte al signormangiadorminascente in quel punto dalla cantina con due bottiglie tramani e la terza in budello. Intantouna botoletta sfoga di sala in sala la suastizzosa verginità sui pizzi di una mantigliae intanto un bàmbolo latterinocon l'ira nelle gengivefà traballare la ricchìssima cullastrillando asgozzarsi pel noleggiato seno della nutrice. ¡Ma e sì! sparmia il fiato¡bimbo! Una giuliva fanfara ha invaso l'ambiente e la tua mucca a due gambeche regge il seno a faticaè andata ad esporlo a un poggiuolodi dovemirando il brioso passare dei bersagliericercatra tante penne di gallolacoda del suo. La cameriera le sopraggiunge. La cameriera abbandonòdi suaparteuna cuffietta a ricami sulla scottante cucchiara. Fuma la tela battistama la strinatura del cuore le intasa per l'altra l'olfato. E passa l'amorososergente e la occhieggiamentre il marito di leiquel bambagione di cuocofischia in cucina il motivo della fanfarabattèndone il ritmo su costolette diporconobilitate a cinghiale.

Nè l'altro piano si dissomiglia troppo dal primo. Se quìnon si pranza in porcellana Ginorinon si sboccona neppure in terraglia diBiella. I padroni maschianche quìsono fuori; giova peraltro supporrecheciò sia a sgobbareper mantenere nell'ozio le loro massaje. E davverodi essemassajeduecioè la nuora e sua figlia ventennestan trascicando pel corsoda trè o quattr'ore le loro fruscianti balzanegratuite spazzaturaje. ¡Sfidovoi a restare tra quattro paretiin una giornata sì azzurracon tanto lussodi vestie quel ch'è piùcon della carne in negozio da esitare alla svelta!Ma già suònan le cinquee in casa non c'è letto rifatto. «Ah se non cifoss'io!» sospirascotendo il capola suòcerafida alla stanza per nonpoterne più uscire«¡addìo òrdine!» E insiemefà quello che puòdisordinando le idèe nella ricciuta testina della nipote minoreuna bimbanovennela quale stà a lei sillabando la storia di Eva che mena pel naso ilprotomàrtire Adamo. Senonchè il loro (parlo ancora di naso) non sembra moltosagace se non si raggrinza all'odore di bruciaticcio che esala dalla cucina.¡Cuoca malconsigliata! bada all'arrosto che se ne vàe non al pudore giàandato. Fai senso perfino allo spasimante magnanoche non arriva a capire perquale ragione paventila prima voltale sue fuliginose carezze. Poichè ilmagnano non sà del ganzo rivalechiotto nel dispensinocome tucuocanonsai che l'ascosotroppo è rapito in una libbra di cotta per ingelosir dellacruda. Intanto l'arrosto và in fumovà coi sogni leccardi dello sgobbantepadrone.

E questa casao signoriè delle meno sconclusionate. ¿Nonmi credemadama? Crederà. Un po' d'unguento bocchinoe rincollata è lacasae quale parevatorna; e ridiventaper lui che passa in istrada e mainon pagò di focàticol'arca d'ogni terrestre salute.

Ma la platèa s'è zeppa. ¡Giovinottiin orchestra! Parlo avoismilzi agognanti alle meritali sferoiditàa voinati all'amore dalletrè pubblicazioni e alla santa fatica del procreare in perfetta sintassi e allafelicità in carta bollata; parlo a voicheancor titubanti tra una tovagliatroppo piccina per due e due lenzuola troppo ampie per unoergete al cielo (delletto) i lìberi polsi per impetrar le manette. Tuin bucaira suggeritrice.¡Giovinottiai leggìi! ¡Fuori i fagotti e gli zùfoli! Dice il mio quintoVangelo «allegramente sonatechè sarete sonati.»

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA

 

Le due poppàtole.

 

Era un giorno qualunque di un qualunque gennajo. Il palazzodei Garza si stava abbigliando pel ballo di gala che la contessa Tullia (c'èanche un maritoma conta per vetro rotto) usava di offrire ogni anno allestelle della cittànel cristianìssimo scopo di spègnerle tutte con ilfulgore delle sue gemmel'inaspettato della toilettela sua bellezzaspavalda e il nùmero dei sospiranti. Tapezzieri e pittorilampadài efioristiavèvano invaso il palazzo sloggiàndone quasi i padroni. D'ogni parteun traurtarsiun sorvegliare a chi sorvegliavaun comandare contro-comandiunaffannarsi a conchiùdere nulla o peggio; làil lamento di un mòbile graveche non voleva mutar domicilio compromettendo la sua emèrita etào lo squillodi gràndine cristallina da un lampadario commosso; quàgli accordi di unpianoforte o la scordatura improvvisa di un servizio di Sèvres; in complessonell'ariatale un bronciotale una luna da minacciare tutt'altro che undivertimento.

¡E sìchealmeno pei servitorila festa è già nel suopieno! Sulle cantinenon più catenaccio; le pletòriche botti son salassatesenza pietà; nella cucina par convenuto il mercato; tanto è il cibodaspaventare la fame. Eppuresarà una graziaquest'oggise potranno i padronisedersi a tovaglia e alzàrsene non malcontenti. Poichè la pompa ha ucciso lacomodità. La sala da pranzo diventò un teatrino; la scalauna serra dalvertiginoso profumo: quanto ai salonisèmplice spazio; pura mobiglialecàmere. Basti pensareche il ballo s'è spinto fino allo studio dell'adiposopadroneobbligàndolo a evacuare d'òrdine della signorache intendesostituirvi un boudoir; sì che il pòvero conte Gonzalofàttosiusbergo di scientìfica flemmaha dovuto raccôrre le sue ittèriche carte ecolla penna all'orecchioil calamajo in saccoccia e due messali sotto leascelle (chè i servitori non hanno più temponemmen di servire) emigrare inuno stanzone remotodovevedèndosi il fiato e soffrendo di unghiellalimaora una ottava di quel suo immenso poema tra il didascàlico e il rompiscàtoleche tratta «della domèstica pace.»

Diamo adesso un'occhiata alla guardaroba. ¡Vatti anascònderBabele! Armadi e tirettiscatoloni e cestetutto è apertoscoperto; è un guazzabugliouna arlecchinerìa di fogge e coloridi sottaninie di gonnedi sbuffi e volantidi bindella e cervelli... dico cioècappellini. Potrèifossi malignoosservare che la padronaa pezzi e apezzettic'è tutta. E sul tavolone un monte di bava di bachispuma senzasostanza come la bonne sociétéche basterebbe a parare otto donnemanon a salvare il pudore a una solaun candidìssimo monteche decresce manmanopassando tra le àgili dita di quattro sartinele qualisedute nel vanodi una finestraci danno lo strano spettàcolo di affacendarsi a cucire -mentre bianchèggiano i tetti su di un ciel grigio - una veste di estate. Equelle ragazze agùcchiano sveltochîne le fronti gentiliin silenzionè sisoffèrmano che a provvedere l'ago di nuovo filoaguzzandoverso la crunaocchi che non hanno dormito. Sopra la sponda della finestra òziano intantoquattro grosse pagnotte e... un coltello. ¡O sojatora cucina! ¡o carestiosaubertà! Tuo malgradoanziè per tèse anche la gabbia di Cicioilpàssero solitariopende muta in un canto. Èccoti lìCicio mioirrigiditosulla incommèstìbil sabbiucciavuoto l'abbeccatojoscîutto l'orciuolosenza più cuoresenza lattugasenza ancor làgrimesalvochè forse da quelgattone sorianoche strofinàndoti-sotto le volte più voluttuoseguarda insù e sospiraper non potere pagarti l'ùltimo ufficio.

Tantodicola guardaroba era zeppa di nullache Isalasettenne bambina della contessaavèa dovuto tirare i suòi due metri quadratid'immunitàil suo San Marinettoil suo tappetinosin contro uno sposarecciocassonedi quelli che con le scolture e gli intarsii dissìmulano (come l'àbitobello il cuor brutto) la biancherìa sùdicia. Eraquel tappetinol'asilo ditutti i colletti all'àmido renitentidi tutti i nastri ribelli al cappio oscartati dalla instàbile modain una paroladi tutti i banditi dall'abbigliatojomaterno; ed era l'assoluta provincia della bambina e della sua amica dicartapestala graziosa Fannyuna fantocciache le assomigliava come uovo auovo e nell'oltremare della pupilla e nel vermiglio delle guancettetènere etuffolottee nell'incipienza del naso e nel biondo-ambra della capigliaturaavvantaggiando su lei in ciò solo (d'assài rilievo però) - nel silenzio.

Ma siccomequaggiùcosa compensa cosa stando la perfezionenel complesso di tuttevaleva il muscoletto linguale dell'Isa e per l'una e perl'altraanzi ne sovrabbondava.

«¡Pòvera la mia Fanny!» dicèa essa accoccolata sultappetino mentre aggiustava intorno alla bàmbola con la manina guantata unabianca sottana di raso«quella brutta Honorine non ti ha ancora portatol'abituccio di gala. Haiè vero il gros lillahai la faille rosahai la moire mauvema li hai messi già tutti. ¡Fi! c'est indécent compariredue volte nello stesso salon con la stessa toilette... ¿Che nedirebbe la baronessa Colornocette dégoutante? ¿che ne direbbe laBredacette parvenue?... Eppòitu devi ballare i lanciers conSua Altezzae far ‹ghigna ghigna› a quella smorfiosa di una marchesazza d'Alife.¡Pòvera la mia Fanny! ¿È il nojoso pappàvero? che non ti vuole dare lesou? ¡Avaraccio!... Ha ben ragione don Peppo. ¡Auf! ¡ces maris!¡che caldo!... Ma non piàngere micaFanny. Noi lo diremo a don Peppoe donPeppo ti comprerà lui la vestina.»

Tra parèntesi; chi mai sia don Peppo e quale il suoufficio in casa del conte Gonzalonon giurerèi: stanno due indizi però; l'unoche ogni qualvolta è pronunciato tal nomes'increspa maliziosamente ilcantuccio dei labbri di questa o di quella sartina; l'altroche Isaperajutarsi la imaginazioneha investito della parte di lui uno zùfolo rosso daun soldo. E Isaadducendo il delicato strumento a Fannyseguitava:

«¡O caro il nostro don Peppo! ¡que vous êtes ponctuel!...Attacca pureFrancesco... Sumonti don Peppo» (e la bambina accomodava lozufolotto a fianco della fantocciain una scàtola già di canditi) «la misegga quì pressomonsieur; tout près...¡ Vite! dalmercante... E tip-top e tip-top e tip-top...

«Bonjourmercante» «¿In che posso servirlasignora contessa?» (facèa da mercante un soffietto) «J'ai besoin dicinque e cinquanta milioni di miglia di velluto d'oro e d'argento con la coda.»«Eccosignora contessa.» «¿Quanto costamercante?» «Nove franchisignora contessa.» «Leimercanteè un gran ladro.» «Non posso fare dimenosignora contessa.» «Basteranno allora dix francs. M'impresti ilsuo porte-monnaiedon Peppo.» «Oh non s'incòmodisignora contessa.»«Adieu mercante.» «Servo suosignora contessa...» E tip-tope tip-top e tip-top...

«Eppòi¿sai? o Fannyti metteremo all'ingiro un collierdi brillantiazzeruole e bottonicon un bel dòndolo in mezzoe dentro ilportrait di don Peppo.

«En attendantsiedi alla pettiniera. ¡IciLulla e Amorina!» (e Isada un mucchio di bambolucceelèssene due e poialtre) «Allumez les bougies... TuTesorettavà a pigliare il peignoir.TuCarmelitainclina la glace e dammi un miroir. MonsieurVioletla mi faccia una coiffure à la chienne-adorable con su unabella corona di marrons glacés e di carta di dolci e una piumona dipollo del Paradiso... ¡Du koheuil et un bâtonnetTesoretta! ¡de laveloutineCarmelita! ¡une houppeLulla!... ¡Bestia di un'Amorina!¿non senti che mi tiri i capelli?

«Ah! c'est fini. ¡Les gants! Mes gants a seibottoni. Inclina un po' ancora la glaceCarmelita. ¡Que je suis bien!que je suis ravissante!... Tustài distantepappà; toujours simalpropre toi

Ma riecco don Peppo (e la bambina riprendeva lo zùfolo)«Come mi trovadon Peppo?» «Un bomboninocontessa.» «Mi dia il bracciodon Peppo.» «A' suòi comandicontessa.» «¡Allons donc de lamusique!...» «¿ Voulez-vous danser une valse avec moi comtesse?» «Très-volentiers chevalier.» (e lì Isa accoppiava lozufolotto a Fanny). «¿Aimez-vous la valse comtesse?» «Àla folie chevalier; ¿et vous?» «Oh j'aime lesperdrix aux truffes comtesse.» «¡Les perdrix à don Peppo!¡vite! ¡le champagne et le pâté à don Peppo!» «¡Quevous êtes spirituelle comtesse!» «¡Que vous êtes bien frisêchevalier!»

Maa questo puntosi udì lo sbadiglio di un uscioeapparve un metro di donnavestita di nerodal naso che respirava sussiegocioè apparve la signora Modestala guardarobierauna di quelle donnette dall'affacendatìssimoozioindispensàbili a che una casa cammini come Dio vuole. E la signoraModestaannunziava: «Donna Isala maestra ti aspetta.»

«Io no...» fe' la bimba.

«¿Hai capito?»

«Io no...» ripetè Isa con sgarbo.

«¡Guarda che vado a chiamare pappà!»

«Vai pure. È festa. Pappà non permette che sistudii alla festa.»

«Ogginon è festa puntodonna Papagallina» esclamòstizzita la guardarobiera «¡Badi che la contessa!...»

Isa sospirò con dispetto. «Vengo» disse «Ma lasciamiprima coucher la Fanny. Maman vuole l'òrdine.»

E lentamente si diede a raccògliere e a mèttere in pila lesue proprietà.

Quand'eccosi riapre la porta a una rotonda e sgualdrinafigura di bambinajache dice: «Contessinala sarta.»

Isain un balzofu in piedi. Attaccossi alla gonna diLaurettae via ambedùe. Il balocco di carne correva alla sua majùscola bimba.

Rimase con quelli di stoppa la signora Modestachecrollando la cuffia in aria di commiserazionesi sbassava a riunirline facevaun fagotto; poialzato il coperchio-sedile della cassa istoriatavi seppellivaentro ogni cosa. La qual cassapanca (anacronismo antiquario a tutto vantaggiodella filosòfica lògica) rappresentavanel secentista dossaleuno scultopavone spiegante la pompa delle occhiute sue penne; nel telajo di sottol'intarsio maggiolinesco di una gran casa in rovina.

 

 

SCENA SECONDA

 

In collegio.

 

¿Dal sopra in giùa cinquanta metri di lontananzaqualepiù grato spettàcolo di un collegio di ragazze e di bimbein ora diricreazione? ¡Quanto bello vedere quelli amorosi intrecci di formeverginalmente sobrieche non attèndono migliorìe da Parigi o da Viennaequell'incompro ondeggiar di capelli e que' colori freschìssimicui fu pittricela sola natura! Eoh quanto mai commoventepensare che in corpi sì vaghipolsèggiano ànime gaje come i lor visibuone spontaneamenteperchèspensierate che di là di quel murofine al soddisfatto lor sguardos'àgitabolle una melma di birberìedove il fratello s'adopra di affogare il fratelloe il meno ribaldo soccombe; e pensarle con un solo desìo e una sola pauragliesamicon un solo rimorsoil premio fallito; accendenti ancora illumino alla purità della Mamma di Dionè ancor distinguentitra due chiavidiversela maschia e la fèmmina… Oha tale vedutaa tali pensierifin ilvecchio delusocui delle gioje del mondo non sono rimasti che i dèbiti e lecicatricisi leva intenerito gli occhialiper asciugarne gli annuvolaticristalli.

Tuttavìami si susurra all'orecchiocheda vicinouncollegio interessa ben più.

¿Vorreste farne sperienza? Per quel privilegioche gliscrittori hanno comune coi doganieridi frugar dapertuttonoi scenderemonell'istituto della signora Isidora Cornalbaun istituto messo sù allatedescanel quale s'impara quel tanto che basti per rimanere ignorante e simangia quel poco che giovi a conservar l'appetito. Fatto stàche fruttimigliori non si saprèbbero dare. Tante le ivi educatequante le ben maritate.E noisull'ali della bugìac'introdurremo in questo egregio istitutodove ciha divanzati il sole più allegro che mai illuminasse una domenica di primavera.A nembi cinguèttan glì uccelli sul fico del cortile-a-giardinoa nembi leragazzine nel mezzo dei fiori. Ragazzefiori ed uccellitrè cosel'unacreata per l'altra.

Eccoanzituttoin un cantodue bambolotte di nove in diecianniabbigliate e velate di biancocon le manine a mezza orazionee tra lemanineun rosso libro di messa. Stan savie savielo sguardo raccoltoindifferenti agli inviti di quella frugaglia ancor senza mammellevera semenzadi roseche gioca chiassosamente sù e giù nel cortilequà a mosca cieca oagli sposi (cioècantandopartita in due schiereil «voglio unafiglia» con la controdimanda del «¿che dote mi date?») là a predelline oa bìndoloopiù quietamentea dar ciascuna da bereper oraal suovaso di parco. Le due bambolotte han fatto appena bucato; la loro internacasettapulita di tutti que' peccatoni imparati a memoriacàndida come leloro vestineè in attesa del primo e pròssimo arrivo di bimbo-Gesù incommestìbile formae ne pregusta il sapore - un sapore assài somigliante alpane di Spagna e ai mostaccini che madama Cornalba serba e promette per talisolennità. Oh poverine! rapite in una gastro-ascètica èstasi non le siaccòrgono intanto di quelle tre monellucce loro coetaneele qualidietrol'uscio del luogo per cui progredìscon le scienzestan dividendo uncartoccione di robae rìdonoverso le duecon un visino più moscadello delsòlito.

Mamentre le nostre angiolette mèditano col palato il terzodei sacramentici ha altre che si prepàrano al sèttimo. Sono ragazze in sugliùndiciche si dìsputano a gara il Millo del portinajoun gognolino di unannoe se lo sèrrano al senoe gli fanno il linguino e il pizzicorino e lomangiùcchian di baci e carezze- baci che han denticarezze che hanno unghie- palleggiàndolosoppesàndolomiràndolo e di sopra e di sotto e all'indrizzoe al rovescioper imparareforsecome i bimbi si fanno. Oh simpatìeprovvidenziali! oh innata maternità! Ma di tanto entusiasmo il neonato non sàpel momentoche faree dà in làgrime e strilli. Amore è dolore. Millocomincia ben presto a sentire che male sia mai il bene delle ragazze.

Altreinvecenon riàndano mica zoologìa; sibbenegeografìa. Vèdilele quattro studiosesotto quel pèrgolo ingraticciatocheattende la appena-seminàtavi ombra; vèdilefuse in un ùnico amplessovôltigli sguardi a un atlanteche una di lorogentil morettina di trèdici annisitien spalancato in grembo. La giovinetta poggia il flessìbile mìgnolo sulvecchio dei due emisferiforse accennando le analogìe tra i promontori ed igolfi; nè pare si avvegga della bianca cuffiazza a bindelloni color-patriarcadella signora Isidorache sosta a osservarle con un bocchino di compiacenza atraverso la grata. Ma una gobbetta tira l'amoerre della rettrice e le spìaalcunchè: tosto scompare il sorriso della rettricetosto scompare lei stessa.Ecco riguizza sull'ampio aperto volume un libricciuolo slegatozêppod'orecchiee quattro sguardi vi si fìsano sùcon l'appetito con cui mammaEva adocchiava quel fruttochevoi donnesapete.

S'udiva in questada una finestra a terrenoil suono di unpianoforte. Era un tremoleggiato «notturno»un frèmito verginaleche sielevava quasi a implorare pietàe toccava all'accento più gemebondopoisoprafatto dal duoloricadeva a morire sconsolatamente. E a quell'agonìa inminoretrè quindicennicui le corte gonnelle volèvano ancora bambine adispetto degli occhie passeggiàvano sobbracciate lungo il cortilesisoffermàronoscambiàndosi un risolino. Delle qualiunacioè Elda Batorialta e superba figuradalla nerìssima chioma che all'opaco pallorequal dimagnoliadel suo dòrico visoaggiungeva altro palloree dall'occhio ùmido egrigio e dalla voce che agiva voluttuosamente sul tattofe' sogghignando:

«Ci siamo.»

A tali parolegli sguardi delle trè belle educande sivòlsero al secondo piano di una casache si innalzava di là della vianascosta nella parte inferiore dal muraglione della corte-giardino. Eccodifattiil pettegolìo di un oboè piagnucolare il motivo del clavicèmbalo; eallora il motivoche impallidiva vieppiùriaversie da un tempo di chiesagrave come un canònicoentrato ben presto nel gajo trottino di una ballatapassare - sempre seguito dal zoppicante oboè - in un galoppato 3 e 4finchèvievìaguadagnando la manoi tasti alle dita e al ritmo le notetutto non fuche un imperversar burrascosoun turbinìoun càos di suoniquale unaccordatore non avrebbe saputo desiderare migliore.

«¡Pòvero piano!» sospirò la seconda delle trècollegialila biondìssima Isa di Garzadalla pupilla cerulea. E s'era fattaIsauna smilza fanciullaflessuosa come una spigadi elegantìssime formequelle forme nate a dar voga a una foggia e nome a una sartameglio assàidelle belleper le qualianzila veste è il màssimo danno. Nè la fanciullaminacciava alla Moda una inimica. Ben si vedèadal pretenzioso suodisabbigliodalla studiata spettinaturadai guanti eterniche Isaquand'anche non figlia del conte Gonzalodi donna Tullia era certo.

«Miss Clelia è proprio in guazzetto col barbigino» disseallora la terzail cui nome di Eugenia Ottonieri accompagnava la ciccia di unaragazza baroccabiancorossa e freschìssima«come pomi a odorarsoave ebuona» nello stile di quellachese credete alla Bibbiatenèa lontana lamuffa dalla saggezza del vecchio rè Dàvide «¡non si scherzave'! Iochesò il linguaggio dei fiorinon passa dì che non legga qualchedichiarazione d'amore sulla finestra o di lei o di lui. Ieri l'altroadesempioil barbigino ci avèa esposto un tulipanoche signìfica ‹ti amo›e sùbito la maestrina ha messo fuoria rincontroun cespo di erbasavia chevuole dire ‹sei freddo.› Ma il giorno dopoal posto del tulipanostavagià un peperoneche se potesse parlaredirebbe ‹ardo›cui miss Cleliarispose con un baràttolo di sanguisughechecome si sàequivale a un ‹tuaper sempre›. E davverogli è un bel pasticetto colùi» aggiunsevogliosamente. «¡Ci si può star senza smorfie!»

«Stài puve» fe' Isacon un frèmere lieve dinarie aristocraticamente fraudando il suo alfabeto dell'errenel che però sicapivacome ancora penasse a parlare men bene di quanto poteva. «Stài puve...con i tuòi apprentis commercianti. Avrài i vestiti au prix defabrique. Da parte mianon ti farò concorrenza. J'avoue dinon èssere nata col tic degli amori all'ombra di una ditta e di unbancotra le ciòtole e i mastrie con le stoffe che mi contèmplan dall'altodei loro scaffali. Je suis née poétique moi. Io non comprendoche un amore alla Otellosalvo il colore. Io vorrèiper lo menoun piratanervosamente magro come un lione non del Musèosouple come un fiorettocon due nerìssimi occhilùcidiaguzzi come i pugnali che gli pèndonointornocon i capellipur neribouclèscon due lunghi mostacchi chegli piòvono in bocca. Io vorrèi vedermi con lui sulla tolda di un brickpas marchand fra il tuonar degli schioppi e lo scoppiare del tuono»(e Isaquì si allacciava un de' quattro bottoni del suo guanto sinistro) «framonti di preda e fiumi di sanguegettàndomiil mio pirataai piedile testede' suòi rivalie gettando sè stèssoe tremando¡egli! dinanzi cuitrèmano tutti. ¡E poi gli arrembaggie le galoppades a traverso lelande s'uno stesso corsiero! e la prigione colle catene e la lunae loscivolarefuggendodalle corde di seta...

«Di' piuttosto il salirvi» esclamò la tombolocciaOttonieri con un sorriso senza risparmiochealleàndosi allo splendore deidenti suòi e lampeggiando nelle pozzette delle sodìssime guance e nelcastagnino degli occhiparve la circondasse di una giojosa aurèola. «¡BellavitaIsa miacon la Questura dietro e dinanzi la Fame! ¡vita da pèrdere itacchi e l'onore! O tièntelasaila tua pidocchiosa poesìai tuòirompicolliil tuo puzzo di pescherìa e di pecee i batticuori e la perpetuainfreddatura. Io scelgoinveceun amore con tutti i suòi còmodicon losgabellino sottoe sotto la stufa russacoi quattro piatti ed il dolcelacarrozza e il teatroe la sua villa sul lagooltre una lunga convalescenzaogni annoa Nizza o a Vichy per le malattìe avvenire. S'intende poicol suobravo maritoanche molto mercante purchè non troppo al minutoanche un po'panciutellopurchèstando in piedisi possa vederedei piedialmeno lapunta; marito che mangia e lascia mangiareche dorme e lascia dormire...»

«Questo poi nolasagnona» saltò su a dir la Batoridandole un pizzicotto«una fanciulla che si rispetta dee volere un marito...»Senonchèavvertita dal gòmito di Isainterrùppesi Eldae scorta ladirettriceche a loro veniva come cercando di spigolare qualche parola dellaconversazionecon un sùbito vezzo di bambinesca ingenuità: «¿Non è vero»chiese «signora Isidorache il giglio simboleggia il candore?» Chiesee lamano di lei si drizzava ad una biancheggiante ajuolanel mezzo di cuisorgèaaltìssimo e pungiglioso un càctussìmile al Dio di Làmpsacoallorchè sparge negli orti grottesco terrore.

Ma intantoad una delle finestre del dormitoriole qualiasolàvanospalancatele lesbie accensioni e le notturne oppressureapparival'èsile forma di una fanciullache si appoggiava languidamente al davanzale.Il viso di lei sofferentepeggio che pàllidogiallomostrava una trasparenzadi opaloo piuttosto quella pellùcida tinta del bacoquandoricco di setastà per ascèndere ai cùlmini della trasfigurazione; gli occhidue pozze diduoloserbàvano quelle tracce che gli insoddisfatti desìi làsciano quanto lenauseate soddisfazionie gli occhi la giovinetta avèa vôltifisiestaticamente a sòffici anella di nùvole imaginose.

«Oh alfine! ecco l'azzùrro» fà quì una voce infalsetto. «Ecco l'amore idealel'insofferente di corpoil primìssimo amore.Sii ben venutanota soave di poesìa fra cotanta prosaccia. Quella celeste...»

¡Pianoginnasialino! Raccomanda il dottore di non lasciarlamai sola.

 

 

SCENA TERZA

 

Quattro salti.

 

E tutta la sala pareva girare.

Stanco del drittomi appoggiài sul piede sinistro. Trèvolte avevo adocchiato al mio orologiotrè al pendolo del caminettoe giàdubitavo di raggiùnger la fine del ballo di donna Alessandra Batori (la mammadi Elda) al qualein penitenza de' mièi futuri peccatimi ero lasciatosedurre. ¿Ho detto «ballo?» Scusate; volevo direuccellatojo da sposi.

Einnanzi a mèchenon cacciatore nè cacciagioneinosservato osservavoessi passàvano gli inesperti anitrocchiciascuno con lasua ànitra allettajolagli uni neri e lugubri come mortori di prima classelealtremeno persone che vestivesti leggiere come i loro intelletti; tutti conquello scarso sorrisoche non è un sentimentoma un'abitùdine di galatèotutti con quell'impalpàbile zanzarìo a fiore di labbrodi ben altra famigliadella loquelae quell'irònica galanterìa che non fu mai gentilezzatantoche a chiùdere gli occhisi poteva pensare di aversi sempre dinanzi lamedèsima coppia. Ma lìda due mani guantateuna asciutta battuta: ànitra eanitrocco dàvano un saltellinoe si mettèvano a girotondare. Oh chespettàcolo buffo! Èrano vecchi dal corto respiroi qualifacendo gli esamidella lezione di ballo a ragazzine dalle corte sottanela rimparàvano; èranoo elle (l) appajate con i o minùscoli isse (x)sciabolanti piroette intorno a delle majùscole Beche ricordàvano ilgran castagno dell'Etna; eraquàil professore Talechesepolto insilenzioassorto completamente ne' piedi suòicalcolava sovra il tappetocolcompasso de' stinchilenta coreogràfica geometrìasenza badare allapoveretta compagna che si moriva di vivacità rientrata; era là invece lostudentello Tal'altroquasi colpito da giubilante pazzìa (una gazosa gli avèadato al cervello) il quale traeva in tumulto la ballerina sù e giù per lasalaschiacciando calliurtando spìgoli e lacerando balzane; tutto sul fondodi una mùsica caframacinata da uno di que' manubri di pianofortedettisolitamente madamigellevera giòvane stregacheloscheggiando attraverso gliocchialipicchiava fuori di tempole sue unghie grifagne sulla gialla dentieradel pianogialla come la sempre patente tastiera della boccaccia di lei - ambointonate ad un allegro feroce.

Compiuto poi il lor giroil loroper così diretrottinodi somarelloi baldi garzoni cui già doleva il ginocchiosoccorsiprovvidenzialmente dalla battuta di maniuscìvano da un'altra porta con la lorchicca incartatail loro mucchio di mussolinae ricomponèndosi il cavaliere imanichini e la lattuga della camicia e la ballerina aggiustàndosi in capo lerose di cencio o castigando qualche velo sul seno che ardìa velleità dipudoreandàvano sottobraccio nella pròssima sala a rieccitare i bollentispìriti alla credenzadove un servo imponentepiù bottoni che pannomescevain càlici cristallini della bellìssima aquaaggiungèndovi ancheper chi nefaceva ricercaun cucchiarino d'argento. Edappertuttosorrisi che non èranoaltro se non dissimulati sbadigli. L'àmido della camicia si era diffuso nelsangue; il freddo morale che vince ogni stufapermeava dovunque. A trattiivitrei gocciolotti delle lumiere mi parèvan ghiaccioli; irrigidite cascateglispecchi. Se è divertirsi questo¡come dolce la noja! ¡se tale la societàbuonaviva allor la cattiva!

Ma anche il piede sinistro non mi voleva più règgere. Vidiun cantuccio con la sua sediavidi la sedia senza occupante; ecolto il bellola completài.

Cosìvenivo a trovarmi fra il pesante drappeggio d'unafinestra e l'ampia gonna color-verdedrago d'una signora attempatabaffutacolpetronciano pien di tabacco e le manacce sporche di guantima tutta ori edargenti come l'altare di una Madonna in fortuna. ¡Dio buono! ¡la signoraPolonia! la cèlebre rompitortache avrebbea paroleseccata l'umidità - nonla sua gola. E allora cercài di celare mè stessofacèndomi partepiù chepotevodel cortinaggioe concentrando ogni mia forza visiva e intellettivasopra una tela della parete di controche figuravanello stile taccagno deltempoun Cristo in mezzo ai beati pàuperes col regna coelòrum infondo.

¡Ma e sì! ecco un colpo di tosse; di quella secca tossettache è un artificio oratorio. Il gelo di una domanda mi lampeggiò per lespalle. E difatti:

«¿Non balla il signore?» chièsemi la tabaccona.

Inghiottìi una spiritosa insolenza che mi solleticava ilpalatosovvenùtomi a tempo che nella società sopraffina bisogna guardarsibene di mostrar dello spìritopena il passarne per privi; e invece risposi conuno di que' monosìllabi che non fanno uncinetto nè maglia. Maper la vecchiatanto era. Anzifacendo bottino degli indifesi mièi campi:

«Il signore» procedè nasalmente «ha ragione di nonvolere ballare. Un vero cristiano non si dimèntica maiin carnevaledellaquarèsima. C'è da guastarsi il suo buon naturale e compromèttere l'ànimaavvicinando tanta carne scoperta che pare una beccherìa. Vedaa mo' d'esempiola figlia della padrona di casa» e quì la signora Polonia indicàvami conl'occhialetto quant'io mirava con assài compiacenzacioè la magnìfica Eldache turbinavaper così direnuda in una nebbia di seta«¡è tutta unoscàndalo! ¿Non le sembra che dica: rèstino pure serviti?... Dio tolgach'iovoglia far la preziosama il soverchio rompe il coperchio. Tanto piùche quìstà la grande ragioneper cui le ragazze del giorno si avànzanosalvo pochedi coricarsi col gatto ¿Chi vuole mo' che le sposi? Amore vive di curiosità.Quando l'ha tutto frugatoil bimbo gitta vìa il balocco. Letto un romanzo inimprêstoè ben rado che lo si compri. Invece a' mièi tempi non ne morivanessuna col strato bianco. Chè certe cosea mièi tempinon si vedèvano maiche a quattr'occhi.»

In questaci rasentava polcando una coppiala cuiballerinananeròttola orrendacon i capelli senza rimesse e ingommati allacutetenèaa differenza di tuttesuggellato il vestito fin sotto la bazza.Ed io già stava per regalarla di un malizioso commentarioloquandofortunatamente mi prevenne la vecchiadicendo: «Mia figlia.»

«Ah! sua figlia..» fec'io interdetto. «¡Brava! me nerallegro.»

«¡La mia Reginuccia!» esclamò con orgoglio la signoraPolonia«quella sìche è diversa dalle altre. Non è alla modaquella. Nonfaccio già per vantarmichè non posso soffrire una madre che porta allestelle la sua creaturama la verità viene sempre al disopra. Noi Poloniadelrimanentesiamo tutti così; ¡tutti fini!» e in dire questo la si poneva sulcuore un manone lavascodelle. «Mia figlia è il pudore incarnato. ¡Guàilasciarsi scappare in presenza di lei una mezza di quelle ambigue espressionitroppo comuni fra la gente ordinaria! ¡Cara innocenza! pare si muti in unbraciajo di carbonella. La si figuricheancora bambinaallorchè le davamo asfogliare qualche volume di stampein cui èrano imàgini di statue o dibestieche non avèano speso troppo pel sartoprima sua cura era di loroinsegnar la modestiaprovvedèndole tuttecon la matita o l'inchiostrodizendadine e di frasche. Cosìdedicò la sua prima agugliata a un pannolino pelsuo Àngiol Custode che stà sull'armadio della sala da pranzo; maper quantola mia Reginuccia diventasse ben presto una cima di agucchiatricenon ci fuverso di farle attaccare i bottoni alle brache di babbofinchè il confessorenon glielo impose per penitenza. ¡Non parlo poi del suo orrore pel matrimonio!non s'è ancoraa tutt'oggipotuta capacitare del come una moglie possadormire in un letto solo con un marito: quanto a leiinnanzi spogliarsi (che èsempre all'Ave Marìa)non manca mai di voltar contro il muro ogni ritratto dimaschiocompreso quello di S. Luigino Gonzagache è il santo particolare dicasa. Vero èche talvolta si arrischia in qualche festina di balloma sono ioa forzarla; e che vi danza con delle persone di sesso diversoma è per purasalute. Vedrà infatti il mio caro signore come stia sempre in contegno ediscosta dal ballerino. Ah! noi Polonia» soggiunse«siamo tutti così;¡tutti fini!» eriponendo la sua manaccia sul cuoreesalò un sospirone d'arrosticcianae cipolle.

Ma il pianoforte-organetto azzittisce di bottoe i ballerinirimàngono fuor d'equilibrioun piede a mezz'ariascambiàndosi con la civiletiepidità il sòlito «grazie». La modestiosa (di quella modestias'intendeche si copre la faccia colle sottane) è tornata alla mamma; ed io debbocèderle il postoringraziàndola anzi con un inchino profondo.

 

SCENA QUARTA

 

Amor di sorella.

 

Senonchèin quella salatra tante facce che èran solbocchenasiocchie non mai espressionine scoprìi unainfinespiranteintelligenza e bontà. Ed era l'ovale e brunetta di una fanciullamodestamenteseduta a fianco di un veneràbile vecchîo; di quellein cui perdi tutto tèstesso e l'animo ti si aqueta; incontrando le qualil'uomo gentileche cercanon tanto una fèmmina a sè quanto una mamma al suo bimbobalza di giojaedesclama «¡eccola!» Nè possìbil l'inganno. Erala faccia di leidi quelliampi registri scritti a majùscole e sempre aperti a chiunquechè nulla hannoa celare; tu le scendevi per la castagnina pupillada una sola ombra velatal'ombra delle lunghe sue cigliafin nel pensier del pensiero. La esternaarmoniosìssima linea non poteva èsser che l'eco di una interna armonìa.

Dove gli occhi van volentierianche il cuore vànè ilpiede tarda a seguirli. Ben prestoseppi il nome di lei - Colomba - di cuinessuno più degno; e dal cognome Giojelli mi sentìi con letizia in nonsconosciuto paese; ben prestoebbi inventata una scusa per presentarmi alvecchio pappàgenerale in rîtiroassordato dal rumor delle pugne e mezzocieco dal fumoe potèi assidermi presso la giovinettaassài presso... …maoh quanto ancora lontano!

Egià s'intendeil capo della conversazione si presentavada sèquel capocheal pari del comincino della calzettaserve a inviare ildiscorso; poicome quelloinoltrata la magliasi lascia.

«Salvo errore» dissi«lei signorina ha una sorellamaritata in Azzurri...»

«Sì» ella fece di malagraziacon una voce rocasìinaspettatamente rocache io dovetti sostare un istantecercando di cancellarela cruda impressione del suono nella inalterata soavità del suo aspetto.

E risposi:

«L'ho conosciuta ai bagni di Luccast'altr'anno. ¡Unaassài bella donnina!»

«¿Bella?» interruppe Colombafacendo la bocca bieca «¿se è bellezza quellache mai sarà la bruttezza? Due occhiche non si fidanl'uno dell'altroun bocchino carinoche susurra un segreto alle orecchieunpeperone di naso che lo si scorge mezz'ora innanzi le guance. ¡Bellezza grecainsomma! ¡bellezza romana!» e sogghignò amaramente.

«Forse» insinuài con dolcezza«io l'ho veduta con gliocchi di un uomo... se pure non me l'ha tanto abbellita il suo spìrito...»

«¡O piglia!» sclamò la fanciullachiudendo con una manoil ventaglio e battèndone dispettosa le stecche sulla palma dell'altra. «¡Miasorellaspìrito! ¡Anche questa mi toccava di udire! ¿Ma e dove avete il buonsenso voi uòmini?... ¿Spìritodice lei? Non c'è da scaldarne un caffè.Stefania è un vero porta-chignon di cartone. Fu sempre il rossore dellafamiglia;... sempre zero alle scuolesempre panco dell'àsino.Quand'apriva la bocca¡qual fuoco artificiale di stupidità! Ahah! a contarele sue citrullerìe s'arrischierebbe una indigestione di risa...»

Ma il rìdere di Colomba non passava la pelle; parèapiuttosto un lamento. Ed iovolgèndole lentamente un'occhiata per accertarmise il medaglione che le posava sul senodicesse ancora e davverocome congusto ci avèa letto in principiola non umana parola di Chàritas;

«¡Sarà!» sospirài. «Fàcile è l'ingannarsi; nè io mipento di èssermi in bene ingannato» e stetti un istante in silenzio. «Ma labontà» ripresi«tutto compensae la signora Stefania è sì buona...»

«E trè» fe' Colombariaprendo con sgarbo il ventaglio«riguardo alla bontàle permetto anche di crèdereche mia sorella è unàngelo per la bellezzae per l'ingegno un diàvolo. Ella però non stìatroppo a fidarsi di cotesta bontà; le lascicome si dicela dritta. Se nonfosse l'amore che ancora mi lega a colèise non fosse il decoro dellafamigliae quel precetto di carità che tanto o quanto s'ha a rispettarepotrèi spiattellarle certe cosette... certe cosette da far ispègnere i lumi dasè. La mammaintantoè crepata per leimarcia; il pappà s'è mezzointontito. ¡Oh non tema! non ode; è sordo come uno scoglio. E se non c'era làioavrebbe viaggiato dov'è la pòvera mammaanche lui. ¡Fortuna che quelveleno s'è ito!... dovrèi dire cacciatoma... ¡bocca taci! Nè badi a chivà mormorando ch'io parlo per gelosìa... ¿Gelosa io? ¡Scempi! ¡Porta a mèsecome si conta (tutte bugìedel resto) la mi abbia fatta una cavallettasposando in mia vece quello smortone di un Dario! Iogiàil Dario Azzurriilfiglio di un lustrascarpenon l'avrèi neanche voluto per tutto l'oro delmondo... no... no...» e Colomba facèvasi vento stizzosamente. «¡Moneta falsadi un Dario! ¡felice chi se ne può liberare!... Del rimanente» aggiunsementr'io sbassavo la testaoppresso da tanta ira di Dio«¡peggio loro chenoi! ¡Sù! fàcciano pure una vita di sfoggioi nostri cari sposinibirbonèggino pure alla grandespèndanospàndano! Tutta allegrìa di panefrescoilluminello da merli. Sotto c'è il fallimento: verrà il dì delgiudizioe allorauna volta spiantativia il fumotorneranno da noigliorgogliosicaveranno il cappellopiegheranno il ginocchio... Ma noi¡nichts!piuttosto la morte. Babbo ha giurato di non li ricèvere più. E anch'ioBabbogià lo sà bene - o loro o mè.»

Dicendo le quali parolela voce della fanciulla avearaggiunto una insopportàbile asprezza. Alzài il capo. ¿Dove mai quella facciadalla soave malinconìache avrebbe potuto inspirare a Cremona la sua piùinnamorata fanciulla? ¿dove mai quel sorrisoal cui sfavillare sarèbberspuntatefin nell'inverno di un cuoreancor rose? L'odio l'avèa totalmentemutata. Tutto il didentro di lei s'era soffuso al difuori. Cadute le càndidepiume della colombabattèa le funeree sue ali una strige.

 

 

SCENA QUINTA

 

Tra amiche.

 

«Mon amour» disse Isala nuova sposina (quell'Isadal sempre piovoso e mortificato visuccio) entrando di pressa in unelegantìssimo àbito di mattina nel gabinetto della non maritata Eugenia«duesoli minuti pour t'embrasser...»

«¡Gioja mia!» esclamò la cicciosa Ottonieriaccorrendoall'amica (e quì baci e ribaci); ma tosto sbassossi a raccôrre una biancagattona di Angorache le era balzata di grembo e già minacciava con lo zampinolo scapigliato musetto di Zòela pincettina dell'Isa. «¡Guarda caso! -venivo giusto da tè.»

«Avresti perduta la strada» fece la Millerose di Garza.«In questi giorninon sono più mia. ¡Tanti affaritanti fastiditi dico!Non mi si lascia un momento tranquilla. ‹Marchesina di quà... marchesina dilà...› debbo vènder mouchoirs e cache-nez per i bimbilattantidebbo distribuire les prix alle operaje che lavòran di piùdebbo raccòglier le offerte per un monumento a don Alessandro Manzonil'autoresaidei Fiancés; debbo... auf!... inaugurare con mio cognatoil Prefetto la nuova sala da ballo... ¡Insommauna persecuzione! Parechesenza di mènon si possa conclùdere nullaquasi ch'io fossi diventata unpersonaggio de conséquence un altro Bismarck... On ditche dove non sonoc'è bujoche l'Olimpo è in isciòperoperchè una festacomincia e finisce in mè sola; che io poi giovo all'umanità assài meglio diuna sœur de charitèperchè incoraggio il commercio... etcæteraetcæteratutte fadaisestutti frasoni à sensationdi que'blagueurs di gazzettieri. E spèrano forse scroccarmi un pranzo o unsorriso. ¡Nenni! La loro M. di G.come mi chiàmanonon se ne accorgeneppure. ¿Hai tu lettoEugeniucciai giornalidove si parla del ballo diCorte?»

«Davverono» rispose l'amicacon l'aria la più ingenuadel mondo. «Sono inezie che sfùggono. Mi si disse peròche fu 'na festaassài fredda. Non c'eranomi si disseche dei rametti vestiti» e laOttonieri non potè a meno di sogguardarsi con compiacenza il doviziosìssimoseno. «Ma tu perdona» aggiunse«Isa miase non t'ho fatto ancora le scusedi questa mia toiletteun po' troppodiremodi confidenza...»

«¿Ma perchèma toute bonne? Sei irréprochable.Chi veste a seconda del proprio statoveste sempre per bene. Oh potessialpari di teme passer di questo incòmodo lusso! Darèi volentieri la miadoppia corona. Quel mestiere di stellacredia lungo andareannoja;quel dover èsser di tuttifuorchè di noi solestanca. Tanto piùche tuconosci i mièi gusti. Io naqui col quietismo nel sangue; non sono nienteambiziosa io; a patto di non mèttere piede in cucinanè di fare rimendinèdi notare la biancherìa sale o la spesanon penserèistesse a mèche al ménage. Eppureche vuòi! ici-bas qualcuna deesagrificarsi alla felicità pùbblica. Da mè lo implòrano tutti e il mio Ugolo esige. Una volta che questo benedetto marito si habisogna pure obedirlo inqualcosaalmeno nel compiacere agli altri. Ma intantooh che noje! Una che nonappartiene alla gran societànon può imaginarsi quanta fatica costi a tenerdietro alla modaoggidì in cui il figurino di Franciacangiadirèidimezz'ora in mezz'ora. Par exemplecaratu sai che la decorazione di unatoilettei fiori cioèles dentellesles nœudslesrubansjeri soltanto stava principalmente alla dritta... Beneoggi ricevodalla mia buona amicala Bruscambille di Parigiche è una delle lionnes dicolàun dispacciocol quale mi avverte qu'il faut sans délai placer toutà gauchepena il passare per una cocotte. ¡Imàgina il miospavento! C'est pourquoiin fretta e in furia vo adesso dalla Honorinea fare découdre e recoudre il vestito per questa serae Diosà quanto avrò da patireprima di crèdermi in salvo. Ahtè feliceEugeniucciache sei affatto au dehors di sìmili seccatureche seiancora senza maritoe sans la corvée» e Isa trasse un sospiro«del divertimento forzato.»

«Oh! per mè» disse Eugenia col tòssico nella pupilla enella voce il miele«non ci tengo davvero. Non sono di quelleioobbligate agiulebbarsi al primo che passa per non andare a male. Ho aspettatoaspetteròma non tradisco il mio cuore. Equanto alle festete le regalo. Anche la mammadesidererebbe che ne frequentassi. ‹Tante› dice lei ‹che non pòssonofanno; tu inveceche puòi...› Ma io m'ho voluto sempre pigliare i mièicòmodilasciando dire gli sciocchi. Oh sì! vale proprio la pena di sopportareil martirio per uscirne più brutte di quello che siamomettèndoci a forza diàrgani in vista per farci rìdere dietro... senza contare le rabbiei malannii dèbitii carrozzini...»

«¡Core!» interruppe pressosa la marchesina. «Duolmi dinon poter stare quì molto a godertima la modista...»

«A propòsito di modista» l'altra riprese aggiustandoall'amica il cappio della sciarpetta«¿tu hai parlatomi paredell'Honorine?GuàrdateneIsa: è una linguaccia colèi... Và dicendo di tè certe cose...»

«¿Di mè? ¿e che cose?»

«Dice... ¡Perdona! tacerèi se non fossi tanto tua amica.»

«Anzi. ¿E che dice?»

«Dice... ¿Indovina?... che il tuo denaro sà d'aria.»

«¡Insolente!»

«Scusasai.»

«Pas de quoi. Non mi formalizzo a sìmili frascherìe.Ci sono abituata. La Honorine si sarà certo piccata perchè nelpenùltimo conto le ho fatto una pìccola tassa del cinquanta per cento ¿Àqui la faute se la Honorine è una ladra?»

«Dico anch'io.»

«Maces fournisseursvediagìscono tutti ad unamaniera. Non hanno educazione. Vorrèbbero quasi èsser pagati prima di averciservitisenza sapere che payer tout de suite non è della gente diqualità; c'est mauvais genre. Merci bienEugeniucciagrand'merci.La confidenzatra amicheè una indispensàbil virtù» e intanto Isa con lospunterba del borzacchino puniva la sua pincetta che brontolava fisa a Minìlagattona in braccio dell'Ottonieri. «Anzicaratu mi sovvieni di quanto Péronettema femme de chambrem'ha contatojer l'altrodel vostro boucheril quale và ridicendo» e quì colla punta delle dita guantateIsaaccarezzava la gota d'Eugenia «¡pensa! che vi ha rifiutato la roba...»

«¿A noi? ¡bugiardaccio! Fosse in casala mammatimostrerebbe i libretti.»

La marchesina fe' una smorfiuccia di schifo.

«Di' invece» soggiunse Eugenia«che chi la rifiuta larobasiam noiquandocome spesso succedeè di scarto...»

«¡Scusave'!»

«¿Ma e di chegioja? ¡Ti ringrazio anzi! ¡Tra amiche!...E io t'assicuroche il manzoier l'altroera proprio cattivo. Ne ètestimonio Azzolino.»

«¿Azzolino?» disse Isa con un lieve sussulto «¿QualeAzzolino?»

«¿Vuòi una chicca?» domandò blanda l'amicadisaccocciando una manata di dolci ed offrèndogliela.

«Merci» fece la Milleroseeleggèndone una«¿Equesto Azzolino?»

«Non c'è altro Azzolinomi sembrache l'amico Parisi. ¡Diàmine!te ne dovresti un po' ricordare. Quell'ufficialesaidi cavallerìaspallutoe rossiccioche quando s'era in pollajo da madama Cornalbagalanteggiava contèe ti spediva attraverso il graticcio le letterinei bombonii libriproibiti... e tu allora giuravi che lo avresti sposato...»

«¿Sposato io? ¿sei matta? ¿un Parisi tout pur senzaun quattrino?... ¿Ma e non s'è ucciso poi Azzolino?» aggiunse in un tuono disemi-rincrescimento. «Me l'avèa pur scritto e promesso!»

«Eh non pareIsa mia. Si direbbe anzi ingrassato.»

«Non lo vedevo più» labbreggiò la sposina con certoquale dispetto.

«¡Sfido! mia gioja. O è a cavallo o è da noi. A sentirloegli verrebbe da mamma per giocare alla damama nessuno ci crede.Figùratise un officiale di cavallerìa potrebbe durarlagiocando con unavecchiaper intere seratee con a posta un onore che non si può mèttere inpila. ¿Ma vuòi sapere il busìllis? ¡Zittove'! Azzolino è innamorato pazzodi mè. ¿Vedi que' fiori? Son suòi. ¿Vedi quel cestellino d'argento? è suo.Anche la chicca che màstichi è delle sue...»

Isa compresse il fazzoletto alla bocca e nel fazzolettopassò il zuccherino.

«¿Non ti piace forse?» chièsele Eugeniavellutando lavoce.

«Non amo troppo... la menta» ribattè imbizzita laMillerose. «E... e... » riprese con uno sforzo «¿non ti ha mai parlato dimè l'Azzolino?»

«No» fece candidissimamente la pastosona Ottonieri«proprio... ¡come se neanche esistessi!»

Isa si morse le labbrapàllidae diede uno strappo allacordella di Zòe.

«Pardonne-moi» disse«se non mi posso piùtrattenere. La modista mi attende. Volevo stare da tè due minuti. ¡Vèdi! cisono rimasta mezz'ora... ¡effetti dell'amicizia!»

E lì «mon trésor! - ¡gioja mia!» le nostre duedonne si baciottàrono con espansionementre Zòe ringhiava e soffiava Minìmolto di loro più oneste.

 

 

SCENA SESTA

 

Amore di figlia.

 

¡Morto! ¡di quali ideedi quài sentimenti (sottintesipensieri) è mai grave questo sèmplice annunziosì antico e pur sempre sìnuovodi una coscienza che si smoccolòdi un io passato alla terza persona!Per quanto provvisti di filosòfiche sottigliezze - diciamo meglioastuzie -per quanto persuasi della «circolazione eterna della materia»e della«immutabilità universa» e papagallantiche «nulla saprebbe morire» e perconversoche «tutto è una morte» con l'assài zoppa consolazioneche «setanto più l'uomo è felice quanto men pensafelicìssimo sarà nel sepolcro»basta il toccheggio di una ignota agonìa che scenda la cappa del nostrovampeggiante caminoin quell'ora del dopopranzo in cui il digestivo caloreèvoca l'umanitarioa inondarci di malinconìa mentre la vista di un funereoconvoglio che lungo-nereggi per le vie lasciando dietro di sè una tal qualesolennitàci rallenta l'allegra andatura e ci attira la mano al cappelloinconsapèvole omaggio a quella comun parentelatroppo fra i vivi obliata.

Etuttavianon conosce la morte chi non la scorse in unafaccia adorata. ¡O Amelia! ¡mia Amelia! èccoti là su quel letto che tidoveva èssere vitaindifferente in mezzo a un nembo di fiorifiori che a unoa uno ti avrèbber destato altrettanti sorrisi; làin quella bianchìssimavestecucita per le tue nozzema tu più bianca di leii grandi occhidischiusie pur non scorgenti l'amatosemiaperte le labbrae pur nonchiedenti altre labbrale mani inertigelate agli scottanti mièi baci.Benchè presentita da una diuturna attesabenchè la morte di un amatìssimonostro sia perfino desiderataper tôrre lui al dolore e abbandonàrvici noiella sempre ne è fùlmine. Finchè la paurosa parola cova in pensierointurgidìscono tacitamente nelle glàndule loro le làgrimesol rattenute dauna agugliata di speme. Ma la parola scoccò; rotto è il puntoe lo scoppiardelle làgrime ci confonde la vista. Dell'estinto par che ogni vizio si abbùi;non splèndono che le virtù. È allorache gli insensìbili oggetti fra iquali ei viveva aquìstano una vita fittiziaquasichè parte di lui fosse traloro indugiatae presentàndoci in mille maniere quella medèsima idèae sìtenendo discosta la smussatrice abitùdineprotràggonciìrritanocirinnòvan la piaga. Ed ecco insieme iniziarsi un processo contro di noigiùdici noi. ¿Come operammo con lui che cessò? Al rimorso che accusaognispillo è pugnaleogni errore colpa. ¡O tuche fai piànger chi ti amaohrammenta che lo potresti poi piàngere!

¡Morto!... - tale l'annuncioquel dìa chi entrava incasa Giojelli. Del conto del generale l'ùltima somma era fatta; ed or sipotevaora sologiudicar della cifra. Ma la bontà stessa del risultato non adaltro serviva che a rènder più cupo il lutto alla derelitta figliuola.¡Eccellente creatura! l'avèan dovuta a forza staccare dal babbocui ellasingultandogridava di voler seppellire il suo duolo nella tomba di lui. Einutilmente la camerieraasciugàndosi dalle cigliacon un cantuccio delfazzolettola pòlverecercava incuorarladicendoche «tanto tanto lamalattìa del pòvero signor padrone era inguarìbile» mentre il cuocopassàndosi un ditoanche luiin sugli occhi lacrimosi pel vinoosservavache «già troppe volte il signor generale era andato a cercare la Vecchiasenza trovarla mai in casaperchè non avesse costèi a restituirgli la vìsita»e inutilmente il mèdico e il preteque' due lugubri figurichevivendo dimortehan di cordoglio il solo vestitoavèvano messo fuori la lor piùriposta mercanzietta confortatoriala loro «in reverendi panni stultizia»el'unoil turba coscienze (fiutando un dolore di prima classe) parlava confegatoso sembiante della celeste felicitàe l'altro il guasta-corpi (che giàcomputava nel cento anche la consolazione) svaligiavaa prò dell'eredeilsòlito Sèneca di tutti quelli ingegnosi bisticci che si gùstano tantoquandonon se ne ha di bisogno... Ahimè! pei confortila terra è troppo vicina etroppo lontano il cielo. Il Molto Reverendo e il Magnìfico avrèbbero meglioesitato le lor mufferìe sulla càttedra e il pùlpito. In siffatti dolori nonc'è che un sollievoil dolore. Ad ogni frasuccia elegante rispondeva unostrilload ogni religiosa promessa uno scoppio di piantofinchè la fanciulla- dallo spàsimo vinta - svennecadendo in una bene imbottita poltrona.

¡Oh quanto allora mai bella in quell'abbandonoche il casofaceva sì artìsticosparse le nerìssime chiomeceree le guancele palpebrevelateammaccate dalle lunghe vigilie! Della bellezza è come della virtù;nella fortunapiace; nella sventurainnamora.

Mainfinemercè i sali del mèdicoe le palmatine(carità pelosetta) del preteo piuttostoessendo trascorso il tempo indicatoa un deliquiola fanciulla ritorna in sè stessa. Tòrnano insieme leaddolorate pezzuole agli occhi dei servi; tòrnano e mèdico e prete a ravviarei loro consolatori motivifra cui la cameriera insinua il suo proprioconsigliando la padroncina a succiarsi una coscia di pollo e a bere un dito divino; dalle dalletuttiad unane dìcono tante che la fanciulla si persuadead alzarsi e a ritirarsi nella sua càmera. Il che ella fàsostando a ognipassosospirando sospiri che parèan vedersiponendo infine la mano sullaspagnoletta dell'usciotragicamente.

Ed ecco la nostra Colombanella càmera sua - sola. Ellastessaincontrando lo specchiodovette stupire all'affanno che trasparìvalein viso. Ma or puòi sfogarlo senza ritegnoo Colombasenza incòmoditestimoniche ad occhi asciutti ti misùrin le làgrime. Ella siede a scrittojoelegge un fogliuzzo dalla nera orlaturaintinge nel calamajo la penna; quindiin un bel caràttere inglese:

 

«Mio diletto biondone;

auf! finalmente...»

 

Trema la mano di lei - per la gioja.

Febo intantoil bracco del generalestava accucciato allasoglia dell'estinto padronemolli le orecchiemelancònico il muso tra lezampacce. Epresso il musouna scodella di zuppaintatta.

 

 

SCENA SETTIMA

 

Amore di madre.

 

(Dialoghetto tra la signora Bettina Ottonieri e sua figliaEugenia)

 

Signora Bettina: Credi a chi la sà più lunga ditè. Fanciulla inzitellonita è come una rosa di jeriè come un romanzo dellastagione passata. ¡Guài cominciare a far crusca! non c'è più verso diriuscire a farina. Le ragazze che fìngono la inappetitosa ad ogni marito dicarne dèvono poi consolarsi con quello di terra cotta. ¡Guarda un po' le tueamiche! Isa di Garza è moglie ad un Millerosenòbilericcobenfattoe persoprapiùàsino. Bella Adrianila figlia dell'usurajoquantunque noce con ilguscio già rottoscarrozza per la città il coronato tarocco del marcheseBamberga. Jole Canàrisè veroha invece sposato un puro mercantel'Araldima è un mercante che è già fallito felicemente una voltae lascia ch'eglifallisca un paio d'altreche Jole sarà milionaria. Eldainfinela qualeconnostra sorpresaavèa commesso la inescusàbile leggerezza di un matrimoniosenza le cifrecome le se ne offerse un secondo a dovereaccorgèndosi tostoche al primo era mancata qualcosaforse la sabbiastancò leggi e avvocatisquattrinò una sùpplica al Papache con un giro di chiave le riaperse lamudaed ora Elda è Sua Eccellenza la duchessa di Stabia. Noiintantopasseggiamo ancora sù e giù pel Corso e i giardini a coltivarci un partito eci frustiamo inutilmente le occhiatei sorrisi e le suola. Non già ch'iointenda cuccarti al primo venutoche tanto o quanto assomigli a uno sposo.Pozzi non màncano mai. Quandoperaltrone càpita uno quale il barone Caprarail che viene a diretrecentomila di rèddito¡altro che contentarsi! c'è daattaccare un cuor d'oro e ventiquattro candele alla beata Vèrgine delCavicchio...

Eugenia: ma Azzolino...

Signora Bettina: ¡Azzolino!... ¡Azzolino!Comincia a pigliare marito. Verrà poil'Azzolino.

Eugenia: ¡eppuretu gli davi speranze!

Signora Bettina: roba di tutti gli davoroba chenulla costa e val molto. Il tenente Parisi andava benonealmeno come unrichiamofintanto che non ci pioveva chi andasse assài meglio. ¡Benedetteragazzeche avete la malinconìa di fare all'amore prima del matrimonio! soanch'io che la poesìa è un'assài bella invenzionemàssime se prepuntata dipolpee di poesìa io ne leggo dalla mattina alla seramafigliolala vitache è poi la cucinaè tutt'altra facenda. Non fà brodo poesìa. Azzolinotiaccordopiacciotta anche a mè. Finchè non si parla di vestiè un magnìficogiòvane; purele vesti¿che vuòi? in società fanno l'uomoe noigrazie aDioabbiamo or tale trovatochequanto a vestiinsacca centomila Azzolini;tale che può mandarci in un equipaggio da rèe ci può far baronessee cipuò mèttere intorno toelette da chiazzar d'itterizia tutte le nostrecarìssimecompreso quell'aloè-in-carta-da-chicche di un'Isa. Non sarà un belmatrimonio - ti accordo anche questo - ma è un gran bel patrimonio. Rifletti aciò e abbandona le stiticherìe e i ripicchi. Vero èche gli sgarbi sono l'ùnicomodo d'innamorarsi certunii qualicome le palle di gommatanto più vèngonoa noi quanto più li ributti; ma quì il caso è diverso. Il cuore del nostrobarone è già entrato in quiescenzaè già pensionato: esso teme gli squassiesso cerca l'amore per agionon per passionelo cercanon come una sellamacome una sedia. In una parolaè un ventreil baroneche per l'amore noncambierebbe l'ora del pranzo.

Eugenia: e che dovrèi faremamma?

Signora Bettina: règola generale per guadagnarsile altrùi simpatìe è di non contradire maiè di sempre adulareprincipalmentequando s'ha a darla da bere a gente dell'età del baronein cuiil giudizio è fatto di pregiudizio. Ora tu sai che il baronea dispetto dellasua aurea saluteè in busca d'una donna di casaocome lui dicedi unamoglie da cucina e da sala. Dunquetutt'altra tàttica che con l'Azzolino.Tieni il cèmbalo chiuso e il cucitojo aperto; cessa di smerlettare buchi ne'fazzoletti e invece mèndane; nascondi «les mignons de l'Eglise»«lesconfidences d'un sofa»«l'endroit des dames» e sìmili scàndaliin rima ed in prosaed abbi invece tra mani «l'amico della buona massaja»e «la cucina per gli stòmaci dèboli.» Di fare bene il caffè non sidiscorre neanche. Magari scopafa-giù i ragnateli e apparecchia le làmpade.Con un po' di sentore di smoccolaturaodorerài più soave al tuo sposochenon con tutta Santa Marìa Novella indosso. E poifagli vedere i tuòiconticiniconfìdagli le tue economiette (chè le confidenze sono tanti piuolinella scala di amore) lamentàndoti insieme della carezza del manzochiedendose il mercato del riso e del burro è in rialzo o in ribassose la legna...

Eugenia (col broncio): ma io non ci durerèi...

Signora Bettina: ¡auf! ¡che innocenza! Non si trattadella eternitànon si trattama di un pajo di mesi. ¿Qual'è quel diàvoloche per due o trè mesi non la può fare da santo? Presenta prima la zampaguantata; metterài poi fuori le unghie. Senonchèfigliolanon basta parerdonna di casa; è pur necessario mostrarsi donna di stanza. Mi spiego. Bisognamia carapèrdere l'àmidoe anticipare qualche moina al tuo uomo. Non dico dibuttàrglisi al collo e di tempestarlo di baci. Oibò. Questo ci scoprirebbetroppo. È di quelle amorevolezze indirette che parlodi quelle tàcitedichiarazionile qualitôcche dal lievito della fantasìalusìngano megliodelle altre la vanitosa coscienza di un innamorato e lo compromèttonoirremissibilmentesenza compromèttere noi di un sol pelo. Per esempiodicoquando odi la scampanellata del nostro gogòcorri tu stessa ad aprirgliediventase puòirossa. ¿Entra? infòrmati minutamente della sua preziosasalutementre la tua manina indugia tremando nel manone di luie se fà persedere presso di tè sul divanotucon premurasprimàcciagli sotto uncuscino. ¿Mò perchè ridibimba? È un incòmodo al pari d'ogni altro;¡tutta salutein fondo! E s'egli si ferma a desinare da noioh allora!partisci seco il tuo pane (mi raccomando di preparàrtelo molle) e bevi nelbicchier suoamàbile erroreo dividi con lui un'ala di quagliao sulla puntadel coltellino gli offri la metà d'una perafisàndolo intanto con quellanguidìssimo occhio che saie sprigionando un di quei tali sospiruccimarioli...

Eugenia (con ingenuità): oh mamma! non posso fìngereio.

Signora Bettina: allora vàttene da questo mondo.Tra gli uòmini inciviliti il più pericoloso dei vizi è la sincerità. Mainogni modoper le bugìet'ajuterà la tua mamma. Io susurrerò al barone deltuo stranissimo mutamentoda ch'ei ci viene per casae come ti si sorprendasolacon le làgrime agli occhi e il greppo alle labbra - tu già sì burbonatu sì compagnona - o peggiocon la bottiglia del rummee come perciò tudimagri di giorno in giornoa libbra a libbraa non guardare l'illusione delvisoperocchè è tutto soppanniesponèndogli poscia il mio dubbioche unsegreto d'amore ti strugga lentissimamente. E luiil furbonescorgendo che atàvola o non mangi che aria o pura insalata...

Eugenia: ¿e se ho famemamma?

Signora Bettina: mangia primache non ne avràipiù. ¡Fìdati! feci io pure altrettanto col mio pòvero Cecco ¡buon'ànima!ed iopensainghiottiva perfino cènere e sabbiaper procurarmi i coloripàllidi e sembrare in amore. ¡Bada ancora! il discorso può cadere suigiòvani. Tupàrlane sempre con un certo qual sprezzochiamàndoli scolaruccifanciullimezze bottiglie...; ¡so io!... osservando che le frutta acerbeallègano i dentiche la legna ancor verde fà magro fuococheconosciuto ilvin stagionatonon gùstasi più il torbidinoe s'egli sospira «ah! ¡noisiamo vecchi!» (sòlita frase di chi desìdera di udire l'opposta) tucon unosguardo di meraviglia «¿vecchio lei? oh quante sarèbber felici di...» e lìti azzitta arrossendo. Vedràialloracome sorriderà soddisfatto ilminchione. Sono astuzie cotesteche non ingoffìscono mai. ... Cosìgiacchèhai la fortuna di possedere un bel miciotòglitelo spesso in bracciobàcialosmaniosamentesempre con la pupilla al baroneil quale non potrà nonriflèttere «se tant'è con un gatto¿che sarà con un...?» - oppurevenutoil dessertprendi un biscotto e vola a sfregucciarlo al tuo merlodicoil merlo piccino... E il grosso allora tra sè «se tale con quella bestiola...¡chissà!...» e per le gengive gli correrà l'aquolina. E quand'ancheimbaldanzito dal vinolui ti pregasse di un bacio... Non già che tu gliene diala prima¡Dio tolga! ciò non fà mai una bimba bene ammaestrata... sedicoti pregasse di un bacioch'egli battezzerà per paterno - ¡niente paurafigliuola! - non resta segno dei baci - làsciatelo dare.

Eugenia (aggricciando): ¡ma è vecchioma è bruttomapuzza!

Signora Bettina (con impazienza): non tantonon tanto.¿Cosa c'è a dire? ¿che ne sai tu? Iogli uòminili conosco un pochinmeglio di tè. Il barone Capraracome maritovà a meraviglia. Porta che l'èun piacere i suòi sessant'anni. Vèdilo attornoraffazzonatocol suosopràbito lungo e le mani in saccocciacol suo cilindro calcatoe sottounbel parrucchinocol suo alto fauxcol e gli occhialoni pel sole e duemilalire di denti. Oh così ce ne fosse! Ripetoquì non si tratta di cuorema disèmplice mano; restail cuoretuo sempree così l'altra mano. ¿Che più?¿brami un sicuro rimedio per scongiurare la nàusea? Sùbito fatto. Quando tipàjono molti i suòi annipensa a quante più pèrtiche tienee s'ei ti duraancor vecchio¡consòlati! chè anderài presto in seconda. ¿Puzza? un solfiato della sua unta cucinae ¡sentirài che fragranza!... ¿Brutto? ¿un po'bue? fèrmati alla doratura: addossa alle bestie che pasce le sue bestialità;nùmeramentre sproloquiai suòi buòii suòi sacchi di granole sue bottidi vinoe li cambia in tanti vestitiin tanti giojellida dar scaccomattoalle tue inimicìssime amiche. Insommao figliuolase vuòi che tua mammaporti per tè il lutto rosadà ascolto a queste quattr'ossae làsciatipersuadere... di quanto desìderi. Tua mamma t'insegna la strada maestra; se tutroviperaltrola scorciatoja - ¡lodato sia Gesù! - pìgliala.

La cameriera (di fretta): il barone ascende le scale...

Signora Bettina: prestoEugenia; ¡via quellalagrimetta! Fà scintillare lo sguardo. ¡Andiamo! apparecchia un sorriso. Etieni - (mettèndole in mano uno straccio) - Che il barone ti colga a spolverarla mobiglia. Io mi ritiro prudentemente.

 

 

SCENA OTTAVA

 

Gioje del matrimonio. (Prima portata)

 

Siamo in una ricca stanza da letto. La freccia dell'orologiosegna... ¡Attendete un istante! attendeteche il barone Caprarail qualefinquìha girellato facendo i suòi pìccoli preparativi per la nottecomesarebbe piantare il portaparruccherimboccar le lenzuoladisporre sul comodinocon simetrìa le caramelle di pomoi senapismii fiammìferiesopra iguancialigli scalferotti di lana e la calottina di setaabbia montato l'orologionedel caminetto dall'avoltojo di bronzo che becca ad un Prometeo d'avorio ilfègato e lo pareggi al suo infallìbil di tasca... Poidà un buffetto alpèndolo. Il cuor della stanza riprende il consueto tic-tac; ràntola lasonerìatira in su il moccioe l'avoltojoapplaudendo con l'alicùcolaùndici ore.

Fatto questoil baronee acceso un Virginiasi affonda inuna poltrona dinanzi al caminoravvolgèndosi nella sua veste da càmera afiori di tulipanoe adagiando gl'impantofolati piedi in una pelle leonina.¡Guarda che faccia oscura! Non ci vuol scala a capirlo; è un marito cheriassapora l'amaro della sposalizia treggèa. Infatticompie l'anno oggisera dache egli ha commesso la indissolùbile corbellerìae pesafastidi a parteventi libbre di meno. Ùniche gioje del matrimonioch'egli conoscason quelleche gli vendettesalatel'orèfice. Ah CapraraCaprara! ¿che hai fatto? Tuil corteggiato dalle mammine e dalle ragazzeda cui toglievi talvolta acredenzatu il cucco di un àngiolo di bambinaja che mantenèvati grasso come ipollastri da lei capponati per tènè ti lasciava mai starnutire senzaaugurarti salute dal profondo del cuore e ti rincalzava le coltri e ti ammiravaogni mattina la linguaèccoti or solomale obedito dai servidagli amiciscansatoche sono invisi a tua mogliecèlibe in un letto matrimoniale. ¿Ache ammucchiare così lunga esperienzaper sciupàrtela poi in sì tristemaniera? ¿a che pensarci su tanto per conclùdere poi con una bùggera tale? Ohingenuità sopraffina! ¡Crèdersi fuori dalla legge comuneperchè s'è sceltauna sposa non ricca (quasichè pòvera di desideri) e pattuire una realcontrodote alle ideali sue trèdel pudoredell'economiadell'òrdine! ¿Òrdine?¡sì davvero! Casa Caprara non era più casa; era un caffèun bivaccoin cuisi dava la posta una baraonda di genteamica della signorama che egliilpadronenon conosceva nemmeno di nomenè conoscèvalo essaanzi lo urtava egli camminava sui callisenza pur chièdergli scusa. Chiunque comandava in suacasasalvoché lui. Tra tanta genteei non poteva accozzarsi neanche la suapartita a tarocchi. Magiàla sposa avea detto «¡aria! ¡aria! ¡io vogliovìver nel nuovoio!» e senza attènder rispostagli avèa tutto cangiatomòbili e amici. ¡Imaginàtevi dunque che economìa! Questa solalacosa di cui si facesse risparmio. Sempre giù la tovagliasempre il gòmitoalzato. I balli tenèvano dietro ai concertiai balli le scampagnate. Ecollussonaturalmentesua sorella lussuria. Perchèdi pudore - terzadote promessa - sembrava che Eugenia non ne serbasse che per il marito. Questidi parte suapoteva ben dire di non possedere la moglie se non sull'attonuziale. Ei non avèa fatt'altro che aprire l'uscio agli amantise pure.Travedùtala a penatra il chiaro e il bujo la prima notteconjugal nauseaemicraniequattro lune ogni mesegliel'avèano tosto rapitacòmplice lamedicinatanto che s'egli volèa stare al corrente delle di lei abbondanzeglitoccava pagar la sua porta al teatro e godèrsela in un cannocchiale. E¡almeno avesse potuto dimenticarla del tuttoma no! il registro dei conti nonpermettèvagli manco cotesta disperatìssima consolazione. Bene gli amicivecchiimbattèndosi seco in istrada ed ascoltati i suòi guài «Nando»dicèvano«¡abbi pazienza! è effetto di gioventù. Tua moglie ha bisogno unosfogo. Verrà la stanchezzavedràie tornerà a tèquando meno tel pensi.»Allorasperandoegli allungava la brigliama e più concedèa e più Eugeniagli si faceva discosta. Cosìè veroin salone ancor primeggiava il suogrande ritratto a olio con molta cornice dorata e stemmatama era un ben magrocompenso a quell'aquarello di giovinotto rossiccioin tenuta di ùsserochedivideva col Cristo e col vaso l'inginocchiatojo di leiil qual ritrattinodicèa essadovèa aggiustarle la vista ed inspirarle bei bimbi. E i mèdicituttiche pàjon sapere le arcane vie della matricele dàvano mille ragionisoggiungendo al maritotanto per consolarloche un bimbo non sarebbe tardato.Oh non temereCaprara; t'hanno sposato per ciò!

Ai quali pensieriil baronefacèndosi ancora più tòrbidoincominciò a masticare stizzosamente lo sìgaro. ¿Ma che avèa maiquelParisiun fatuaccio di unobuono soltanto di montare a cavallo e d'ingommarsii mostacchiper far cadere in amore tutte le mogli degli altri? ¿e che cosamailui Capraraper tanto inimicarsi la sua?... ¡Sìgaro maledetto! ¡anchetu! (più non tirava lo sìgaro) e spezzàndolo in duelo gettò nel camino.

«Oh le donne di un tempo! oh gli antichi ingenui costumi!»sospirò desioso. Ma quì lo sguardo gli cadde sopra un ritratto allato lospecchio. Era il ritratto di sua nonna paternauna dama del regime spagnuolovero caval di parata. Parèa che intorno le crescesse la roba; tanta grazia diDio da rivoltare lo stòmaco. E donna Teresa volgèa superbamente al maritochein àbito di ciambellano le facèa riscontrole sue spalle pomposenè piùnè meno che in vita. Ma lì almanco l'ingiuriavenendo da regi lombionoravala casama almanco donna Teresa avèa coperta la cornea escrescenza del signorPietro Taddèo con un cerchio imperlato. Edai ritratti dei nonniscese il suoocchio allo smalto di una baldracca mascherata a vestale. Il barone allibì. Eiricordava quanto il padre di lui - fu becco Napoleone - dicèa della consortebiliosamente faceto: «il glorioso mio omònimo ha bel chiamarlo un affare dacanapè. Io pagointantole molle.»

E il nostro Caprara sbassò vergognando la fronte. Nelladisgrazia ei non si sentivaè veropiù soloma non è detto che lacompagnìa eccellente renda gradito l'inferno. Il freddo lo guadagnava. ¡Gelarecon una moglie per casa ai 35 Réaumurè pur duro! Si die' a inanimire apalettate il fuoco. Era la legna affetta da idropisìa; nicchiavapiangèa.¡Neanche il fuoco gli volèa attaccare!

Quand'eccolo scattar di una toppa. Rialzò le pupilleeguardando nella inclinata specchieravide spostarsi un drappeggio delmagnìfico arazzo che con la visìbile istoria di Marìa piena e del contentoGiuseppe tappezzava la stanzae apparire una bianca figuramezzo slacciatadidonna - sciolti i capelliporporine le guancelucidìssimi gli occhi. Il cuoredi Nando palpitò fortemente: una vampa di caldoche non irradiava dalcaminettolo invase; Nando risuscitava. Pur non osa ancor muòversiquasioppresso da un sognoe segue nella specchieracon sempre crescente emozioneil blando appressarsi d'Eugeniafinchèpiegàndosi ella su lui tra il sì eil no della vaporosa camiciae in una voce che ha dita mormoràndogli il nomee già l'assorbendo nell'anèlito ardente e nel candor delle braccia e nell'ondadel fragrantìssimo seno...

Il pèndoloin questacucolò mezzanotte.

 

 

SCENA NONA

 

Gioje del matrimonio. (Seconda portata)

 

¡Mortarettisparate! ¡dindonatecampane! ¡sùin coroochemerligabbianiinneggiate! Il barone Capraranella acerba età disessantaè babboil che talora succedema e' se ne tieneil che non succedesì spesso. È babbo di una bamberòttolarossa come uno scojàttolosana comeun acciarino brescianoche è settimestre eppur si direbbe di diecie a luis'assomiglia come un còlibri a un rospoquantunque i servi e gli amicifacendo ressa al neonatoo piuttosto alla baliatròvingli tutti gli stessiocchi del putativoil medèsimo nasola eguale espressione (oh! questo sìchè l'espressione era zero) e soggiunge un maligno - perchè pelatiambidùe - «la idèntica capigliatura.» Sul che il baroneestasiatoun po'mira la bimbaun po' sè nello specchioed a ciascun complimentoquasichègli toccasses'inchina tra il riconoscente e il borioso. L'idèa di aversiaquistato un eredecioè un èssere che possa alternarsi a sua moglie nellefunzioni di quotidiano bojetto e gli debba augurare tègoli in capo a ognipassogli fà sembrar tanta piuma ogni passata durezza e gli fà insiemesquadrare il futuro con sembiante di sfida. «Venite pureaquazzoni» pardica«ho l'ombrella.»

Non và taciuto peraltroche Eugenia non è più quella diprimao almeno sembracon lui. Gli strapazzi iniquamente cercati durante lagravidanzae da essi il laboriosìssimo partosono pagatisoldi e denariconuna di quelle malattìe violenteche dìconsi di caràttere. Prostratadal malela baronessa diventa zùcchero e miele. S'accòrgono allora gli amicinuovi che il vento s'è vôltoe sfùmano bellamente innanzi agli antichichericàcciano in fuori i cornetti. Eugenia non soffre al suo letto se non ilmaritoanche un maritotra i purganti e i clisterilo si può sopportare;essa non vuole che lui a rispianarle i lenzuolia ministrarle le medicineadappressarle e la coppa da bere e quella che beve. Ed egliil buon uomoche nonosa staccarsi da leise non per sguardare alla succhiante puttinaveglia dì enotte al suo fianco e si sente inumidire le ciglia ad ogni mìnima frased'Eugenia che arieggi la tenerezza.

«¡Vedi!» gli fanno gli amici in trionfo «¿vedi se nonavevamo ragione? La pecorella è tornata...» «Tornata sì... per morire»singhiozza il baronee lì sommove tutta la mèdica Facoltàincomodando laScienza fin da Parigi e da Londrapoiquando scorge la Scienzanell'intascarsi que' rotoletti che non pèsano mai abbastanzascuòtere ilcapomette il sequestro su tutte le preci della cittàsolleticandoconàurei cuori e gemmati diademila femminile ambizione d'ogni più miracolosaMadonnae adulandoa furia di tabacco celesteogni canonizzato naso.

Maper disgraziaDio gli fà la grazia. Un giornodallepàllide labbra d'Eugeniascoppia all'indirizzo di lui una ingiuria. Fu ilprimo sìntomo della di lei guarigione. Quel dìEugenia mangiò d'appetito unaquaglia.

E quì le ricette cedendo ai ménuscon il fastidiopei fàrmachi Eugenia risente anche quello per il marito. Ella vuol già le suefacce. E giàsotto il fiuto dell'infermiere baronepàssano i sòlitivigliettinitroppo fragranti per sapergli di buono e ricomìnciano le adùlteresciàbole ad ammaccargli gli intavolati. Ecco la Moda fà il suo trionfalereingresso sulla rivinta Natura. Più il male si và allontanandoe piùriavvicìnansi i ticchii capriccile stramberìefinchè Eugenia si trovaperfettamente restituita nella salute e nella condotta di prima.

Senonchèstavoltail barone vede i propri malanni colcannocchiale invertitochèa temperargli il doloreè lì il fruttodell'amor della moglie. Oh minuti di oretrascorsi a pavoneggiarsi nella suabimba appiccicata alle gonfie saldìssime poppe della nutrice che le prèmono insù il nasettino o a dondolarla nella sèrica cullacanterellando in una vocestonata la ninna-nanna! oh strilli sì soavemente sgarbati! oh paradisìacieffluvi! oh insudiciatine gentilitutta roba d'àngiolo!

E la bambina cresce prosperosìssimacome ogni cosa cheprovien dal peccatodando di sè le più liete promessenella smaniaadesempiodi mostrar le gambuccementre il barone ha l'ineffàbile gioja diudire da quèi labbruzzisui quali un bacio ancor pena a star tuttola loroprima bugìa: pappà. Anche la baronessa sembra volerle un ben matto. Èla piccina un pretesto per mèttere in luce la grande; è il piattellodirèiche domanda e raccoglie l'elogio per la mammina. Lola è disputata fra i dueinnamorati parentii qualicome se i vizi che Dio le prodigònon fòsserbastanti ad infiorarle la vitaspineggiàndola altrùigarèggiano nell'assuefàrglienenuovi. Nè la rossigna par di capocchio intelletto: ella ha ben presto intuitoil valore e l'impiego delle sue gattesche strofinatinedelle sue smorfie estizzuccede' suòi piantuccetti; poidiventata la confidente del borbottarepaterno in odio di donna Eugeniae della pasquinesca imaginazione di mamma aspese di don Ferdinandosi fàtra l'uno e l'altrala spia delle continuevicendèvoli offese (aggiuntisi intendei propri interessi in calunnia) elucra sul dùplice tradimento una doppia mercede.

Maa un trattoaltra scena. Alle espansioni d'amoreaglientusiasmi maternisubèntrano iròniche sostenutezzemute disapprovazionipèrdi sottintesi. ¿Che è ciò? È che dov'era una bimba stà una fanciullaè che donna Eugenia non può vedere più in lei una popa da vestire e svestire(chèquanto a figlianon ne avèa mai visto) sibbene una donnae quel ch'èpiùuna donna rivale. Infattigli smaliziati occhi di Lola càcciano già nelsuo parco. Lola è stanca di lègger l'amoree di sentimento ne ha appreso amemoria abbastanza; è stanca di aspettar l'amoroso dal buco della serratura odalla cappa del caminetto; tanto più che s'è accortacome i canarini dimammaragliandoguàrdino meno a occidente che non ad oriente. E invanolabaronessa si tien dalla suaprivilegiata alleanzaquell'arte che rendestàbile il desiderio con il continuo variar d'apparenza all'oggettodesiderandola Moda. Con gioventùla toeletta migliore èfreschezza; solo ornamentoil nessuno. ¿Or voi crederestevoi sùdici colorimessi insieme in bottegadi vìncere quelli che improvvisa Natura? ¿or voioserestevoi cristallini cocciuzzi dall'imprestato fulgorecompèter con gemmela cui luce è sguardo? E allorala baronessaimpotente a superar la rivalecerca di allontanàrselae come le sfugge di maritarla alla podagra di unvecchiochè il terror del chirurgo ne azzitta nella fanciulla per qualcheminuto il bisognocolta da sùbiti scrùpolile riaccorcia le gonne(illudèndosi quasi di accorciarle anche gli anni) e le nega i teatri e le negai passeggiarrivando perfino a mutarle il chiassoso appartamentino daipetulanti balconipiù che casa stradain una tàcita fila di stanze verso uncortile dalla inviolàbil gramigna. ¡Ma e sì! le manette non fanno cherattizzare la smania per la libertà. Nè Lola è di quelle aquose ragazzenateal martirioche si consùman tacendo e sèggono in questa vitasecondo ildivino inglese

 

«come Pazienza sopra un monumento

sorridendo al Dolor...»

 

Lola non è rossa per nulla. Dunqueliti su liti tra le duedonne da svergognare la più smarronata treccaja; dunquetempesteche vannopoi sempre a sfogarsiannodatesull'ùnico capo di don Ferdinandotanto difìsica ignaro da sostenerci le parti del parafùlmine. E i dispetti chiàman leoffesele offese le rappresaglie; vievìail diàpason dell'odio si elevanella proporzione del cubofinchèun dìla mamminain un ìmpeto digelosìaappoggia una solenne guanciata alla figliae la figliacon meditatavendettarubafuggendoil viceconsorte alla madre.

Così èamici. E giacchè la fanciulla ha ora pigliato sìbene la sdrucciolinanon sciuperemoa seguirlaaltro inchiostro. Bens'indovinasenza troppa magìain su qual libro anderà Lola a finire.

 

 

DÈCIMA ED ULTIMA SCENA

 

E in quello scuroin quel tanfo tra l'ospedale e laprofumerìaentròsulla punta de' piediuna siloetta di donnacheapertespilorciamente le impostedie' un filo di sole a una stanza di quellelequalicome certe serve di pretesèrvono a tutto. Poichè se il lettucciorimasto nella penombrace la presentavain sul primocome una càmeramentre due dorate poltrone ed un tàvolo dal vanitoso tappeto ma a strappi(strappi malenascosti dagli sparsi romanzi e dai figurini di moda) ce lavolèvan piuttosto infinocchiare per salaun fornelletto sotto il caminoe trè o quattro pajoli tentàvano di tirarne in cucina e ci sarèbberriuscitisenza due ferri a stirare sullo stesso fornello e un'impiccata disottaninie un mucchioin un cantodi biancherìa sùdiciache ci sviàvanoinvece in guardaroba. Da una pianta poi di Parigi incollata su 'n usciogià si poteva sospettare di èsservima il dubbio diventava certezzascorgendolì pressouna imagine del Sacré-Coeurcon dinanzi il suolumeacceso in un ex-orciuoletto d'Injection-Brou.

«Chantal quelle heure est-il?» chiese dalletto una debolìssima voce.

«Deux heures madame» risposedallafinestramadamigella Chantalcioè una càndida cuffia e un bianco grembiale apettocon entro una vecchia senza sguardo e giallicciache aggiunseuntuosamente: «monsieur le curé va venir...»

«Ouvrez tout à fait... je vous prie

Madamigella spalancò affatto le impostee la luceinvadendo ogni àngolopinse in una pòvera cucciasulla quale era stesoinùtile pompaun dominò azzurrouna donna ai confini della gioventù e dellavitacavernosa la guanciala pupilla appannatadi una faccia peraltro chenuova non ci giungeva ma che avremmo penato assài a raffigurare se alla memorianon ci fosse soccorso un conto di sartache fra biglietti di pegno e lètterespiegazzate posava sul comodinoe per indirizzo recava «à madame lamarquise Iza Millerose di Garza

«Mon miroir...» labbreggiò la malata.

Madamigella Chantalsempre con quel suo far dignitosocheparèa dire «a Parigi si serve per passatempo» andò a tôrre alla pettinieralo specchio e lo presentò alla marchesa.

La qualemiràndovisi:

«¡Bon Dieu que je suis chiffonnèe!...¿n'est-ce pas? Prenez garde que monsieur le curé n'entre soudainement.Oh mon pauvre chignon! Chantal arrangez le moi je vousprie» eintanto che l'infermiera gliel rassettava«¿ne voussemble-t-il pas qu'une petite boucle à l'espiègle me siérait bien surle front?... Placez-la moi à gauche ici» eaccennava alle tempia con la trasparente manina cui èran già gravi i pochianelli rimasti«C'est ca; en m'entourant ensuite les cheveux avec unruban rouge... Mais non tenez... J'ai trop mauvaise minepour le rouge. Un ruban jaune ira mieux... Et...» E quìall'infermadopo due o tre inùtili proveriuscì di levarsi un po' sullavitaaiutata dalla Chantalche poi le copriva di un ricco accappatojo lespalleo piuttosto gli involontari pizzi e ricami della camicia. Matroppo losforzo; e la inferma velò la pupilla in un mezzo deliquio.

«¡Le curé de Sainte Croix!» annunziò una servettaapparendo alla soglia.

Isa rinvenne.

«Attendez...» sclamòriunendo in un ùltimo lampoquell'io che le si andava spegnendo. «¡Mes gants Chantal!...¿où sont mes gants?»

«Les voici» rispose la vecchiaporgèndoglienedalla canteriera un pajo (che Isa lasciò tosto cadere) e fece con un sogghigno:«¿Notre Seigneur peut-il entrer à présent?»

«¿Où est mon miroir?... ¿Comment me trouvez-vous?Trop pâle n'est-ce pas? Pour l'amour de DieuChantalpassez-moi sur les joues du rose-Pompadour... et un peu d'émailline auxlèvres... Merci Dieu vous le rendra... Laissez-moi voir»e si guardò nel pìccolo specchio che avèa potuto raccôrre ella stessamaper fortuna non vide lo spettàcolo orrendo di un dipinto cadàvere. «¿Commentme trouvez-vous?» ripetè mormorando quasi tra il sonno e la veglia. «Suis-jeen ordre pour le bal? où êtes-vous mes amis?... ¡Dio! non rapìtemi ilsole. Il bujo sòffoca» e lo specchietto le sfuggì dalla mano. «¡Perdo il chignon!...Mamma... il chignon...» e con un profondo sospiroIsa piegò sullaspalla il capotorta la bocca.

Calmissimamentemadamigella Chantal le tolse di dito glianelli.

 

 

INTERMEZZO PRIMO

 

 

 

Via pùblica.

 

Orchestrinaa noi. È ora di riattaccare. La leggeraemozione par data giù. S'intendeche non parliamo dei palchi - quell'Olimpo amezz'aria in cui la urbanità sostituisce la cordialitàabitato da èsseriiquali vanno a teatro per fare non da spettante ma da spettàcolonè si sèntoncommossi che quando la privilegiata lor crìtica dice loro che sono - parliamodella borghese platèa e del plebèo loggionegiudizioso complesso discriteriate individualità - donde il fischio e l'applàuso - che fannoe nelmondo di carne e nel mondo di cartapestail solo Pùbblico vero. La emozionepare dunque cedutae con essaogni ombra d'insegnamento. I femminili tomàicomìnciano a ritentare le maschili suolei cannocchiali son ritornati ai loroeròtici furti. E già le gobbette scòprono dapertutto nuove storturelesciamannatein ogni dovedelitti di lesa-toilette. E quì una mogliedando del gòmito in un vicin suo assài brutto (è il suo bello) gli mostra conun ghignuzzo il maritoun fior di uomoil qualefiduciosamentepesa i pomidel sonno sull'altra spalla di leilì un giovinotto in prima erba bisbigliagrate insolenze ad una donna già in fienoche arrossanon di pudore; mentrepiù in làdue altre sorelle in Gesùdue ìntime amiche s'incènsanovicendevolmentea turìbolo pienocon il fumo di penne. Di occhi rossinon sene trova che quattro... ¡O ragazzoneche avete voluto contare i becchi dellampadario! E se bianchèggian pezzuolenon una oltrepassa il naso; e se unagrave matrona si asciuga col mìgnolo un lagriminoè ciò piuttosto l'effettodi quella verdìssima limonèa da lei posataa metàsul vassojo delcaffettiere. Perchèveramenteil teatro è uno specchio in cui ciascuno nonscorge che il volto altrùi.

Maadessoche si dovrebbe avere veduto come vìvesi incasa¿ditenon c'è da scusare chi ne stà affatto alla larga o ne esce ilpiù possìbile spesso?... Anziusciàmone insieme.

Già i gassajoli dièdero il colpo della luminosa lor lanciaa tutti i lampioni: splèndono le botteghe. Non havvi porta che non partoriscail suo uomonon soglia su cui non dòndoli il suo. Sbotta la gente dairistorantipùllula dalle chiesecome formiche da una cariosa ceppaja. È ilquarto d'ora del dopopranzoallorchè il cibocui si pensò tutto il giornocomincia a pensare per noie diffondendo per la rete venosa un sangue piùpinguepiù caldo e aoppiato dal caffè e dal vinoci adagia l'intelligenza inquel lieve ebetismo che è il morale benèssere. Tutti allora s'è ricchituttis'ha in prospettiva una ereditào per lo menoun terno. Il liceistavenendodal pacchio domenicale del canònico-ziocammina fierola sua sbrindolina abraccettoe di un'aria conquistatoradimandacon quasi una lira in borselloil prezzo dell'orologio aspettato dalla sua àurea catena odorante l'ottone odella camicia che gli manca al colletto; mentre il portabigonciapinzo dimerluzzo e polentail mostaccio lavato da un midollo d'anguriapiù nonricorda l'indolenzito dell'òmero e fabbrica già per suo conto. E a tuttiinquesti sessanta minutipòsson piacere due cosechese si cìtano a stòmacovuotoè solo per berteggiarle; parlo di due strette parentiPoesìa e Bontà.Chè è l'orain cui una birbapur non compiendo una buona azionesaprebbealmeno pensarla; e potrebbe un astuto rimanere aggiratose il suo possibileingannatore non si trovasse nel suo idèntico caso; l'oraquando un mercante ècapace perfino di non fare un affaree Arpagonenel prodigarsi una ciliegiaallo spìritonon se ne salva il noccioletto in taschino. Noi per le strade sigiràndola allorascopo la stradascambiàndoci scappellatestrette di manosorrisicon una prodigalitàuna espansioneun affettochepoco primaricorderebbe di Giuda; e ci si scorda di tenere su il broncio col tale otal'altroe sopraccòlgoncia voltestranìssime simpatie per sconosciutepersonecàusa forse la fetta che il macellajo ha divisoquel dìdalmedèsimo buefra esse e noi.

Maoh quanto roseo di facce! Sbòcciano le ragazzecome ipensieriad un trattoper polcome quellispariresoppiantate da nuove.Sono stormi di gonneè un passerìo di voci. Cucitoreguantajecrestainesartinetòrnano dai lavoratòitutto punte le ditae affollàndosi con gliocchi vogliosi alle sfolgoreggianti mostre del lusso (le mille porte albordello) dove la intatta nevata del camiciajo e la cascata dai caldi riflessidel tappezziere si altèrnano con le gabbiate-di-cappellini della modista o conle ajuole di nastri e merletti (i cenci dei ricchi) o con i monti di guanti (lalor pelle fina) - doveai variopinti sapori del confettiereche vanno alpalato men per la bocca che per la pupilla e sciòlgonsi in una fragranzasuccede la gioventù imboccettata e la beltà inscatolata del profumiereirradiante una ebbrezza di odoried alla grande oziosità del quadrajo lapìccola del chincagliereinutilerìa sott'ogni più indispensàbile forma... -¡pòvere tose! - estasiate alla fàcile letteraturaa ùnica popolaredellepùbbliche cartedal bello stile del 500 e dal migliore del 1000o rapitenella boreale aurora del giojellieredimènticano l'oro fumante della polentache a casa le aspetta con la sbadigliosa mamminae ascòltano con semprecrescente clemenza il ronzìo dei calabroni che loro aleggiano intornofinchèstaccàtesi a forzaquasi rompèssero un lacciodalla dùplice insidiasiriconfòndon col bujo. Ma nel bujo le insegueidèa fissail tentatorebaluccichìo e lor la polenta fà groppo e il pagliariccio dà spine.

Altre invecevanno ora a bottega. Sono le nottolinelebelle affamatele maritate col pùbblico - ami vestiti da donna - che cirasèntano lestefrusciando sericamente le loro tele incartate e lucicàndociin viso i loro specchietti da lòdole e spargendo dalle zafferanee capigliatureun sentore di cipriaquasi fuggenti per non èsser fuggite; sono le càndidegiovinette dal cappellino alla calabrese e dalla scusa di uno spartitosobbraccioche ci vèngono incontro come in cerca d'aìtagiovinette fioccatein città per istudiarci anche la mùsica; sono le miserìssime bimbecui funegata l'infanziae le orrìbili vecchie dalla lingua infameche ci tèngonodietro insistentichiedendo la caritàoffrendo di avvelenarci.

E intantola teatral bergamina si riunisce ai suòichiusi. Illùminansi i camerinigusci di altrettante celebrità. La istrionaallo specchio si rimposticcia il cuore serale e si «fà il volto»la virtuosa(perocchè in medio stat vìrtus) sciogliein attesa «di superare sèstessa» a tutto entusiasmo della sorda mammanail canarino della celestetrachèa; mentre la trinciasalticome una mosca che si soffreghi i pie'inzaccheratiriavvìaa tutto profitto della lievemente arrabbiata cagnettala polposa loquela delle sue gambeoppuremezzo vestita da Dea e sdrajata su'n canapè dalle molle rottesi spassa a grattarsi un prurito che possiedezampini. Poichèdi là del telonequella belva feroceche è «ilrispettàbile e colto» ancor non da segno col trepicchio e col fischio dellasua graziosa presenza. Quantunque la piccionaja sia già tutto testeesbrìscino nella platèaad ogni momentodi quelle brave personeche a benegodere il proprio denaro non vòglion pèrder neppure la noja del divertimentol'ombra intimidisce i rumoriombra assài grata ai servottài del loggionechestanno insegnando come si alzi il sipario e balli la marionettaa voiColombinemaliziosamente crèdule.

Il chetutto insiemeè un brulichìouna nebbiadovel'incenso sembra fumar da una pipada una caffettiera il tabaccoda unincensiere il caffè; dovenel solenne bordone dell'òrgano galoppasguajatamente lo strillo dell'organettoe sul rombo della campanapunteggiatodal tonfo del tamburonesi eleva il ricamato affanno del pianointerrotto quàe là dallo stappo delle gazosedal fischio de' razzi e dal ruotolìo dei brummitintinnanti nei vetri - tutto un grigiodiciamodi rumori e di odorinelquale inutilmente si perde il vagito che esala dalle latrine e l'afror dicarbone della tradita mansardae di cui gli ùltimi echisfiorando laprigionieraaggrappata alle sbarre e smaniosa pur del ceffo aguzzinovanno amorireevocatori di non pentiti desìiin quella lunga corsìadivo Rochodicatadove - in tanti lettinituttifuorchè nel nùmeroeguali; daitanti consìmili visio a meglio direricordi di viso - chiùdonsi tantestorie di gioja che ne fanno una sola di pianto.

Ma¡ecchè! delle storie con il singhiozzone abbiamo giàpieni i cassettied anche le scàtole. ¡Bando ai gufi! ¡Altra mùsica eorchestra! ¡A mè i giovanotti che vìvono all'avventatafacendo l'amore suipianeròttoli! ¡a mè i prudentìssimi vecchiche han sempre fatto lo zio e iverginoni senza rammàricoe i «non indegni di aver perduto la prima!...»

Or¿chi mi dona una rossa matita? ¿TuCletto mio?... ohgrazie.

E la rompo.

Mezza è per tècriti-cucciocui ogni spropòsito nostroè seme di mille tuòi - tugiùdice inquisitoreche non annasti che il maleper poise nol troviinvèntarlo. O letterario fuco¡gioisci! Hai quì casidi maggiore scomùnicaeresìe da tanaglia e da rogo. Troverài idèe nuovechè tali almeno parranno alla tua squisita ignoranzatroverài gagliardisaporiche a tèassuefatto alle più scempie pappineabbaglieranno ilpalato. Ma¿che vuòi? A gusti scaltriti (e io sol cucino per essi) non puòl'ingenuo manzo piacere se non a forza di salsa. Anzi; anche il sale è talvoltalor dolcee però ci vuol pepe. ¡Viva il pepe che salva i panni dal tarlo - edi libri!

E cosìl'altra mezza è per tèautorità filològicalaqualea nome di quella Crusca che in Lombardìa si stima assài ne' clisterispaventi col tuo «non si può» le idèe de' scolarucci che fanno il comporre.Ma non le nostrebada. Noila lingua che Natura ci ha datonoi la vogliamovibrare come meglio ci sembra. Stolti voi che credetecoi dizionari e lescuoled'immobilizzarlaquando il pensierosuo sanguenè le manette nè ilboja non arrestàrono mainè Cristo nè il Diàvolo.

 

 

ATTO SECONDO

 

 

SCENA PRIMA

 

 

Eropatìa

 

Se ad uno di que' rarìssimi giovanottinisulle cui guancela foglia di rosa ancor non cedette a quella di nicozianamiracolosamentepassati intatti fra le bambinajele maestrine ed i pretisi domandasseadditando una processione di gente che pare nudrita a lucerte e pende più alverde che al giallomàssime nelle taschee trae fin dalle calcagna i sospirie ti risponde una cosa per l'altrao cose che nessuno capiscecompresa leisidomandassedico «¿or che vedi?» certo risponderebbe «ammalati.» E noibattèndogli amichevolmente la spalla«bravo tè» gli diremmo «hai trucciatoperocchè sono innamorati.» Ma allora il giovanottinoil qualeproprietariodi una completa poètica profumerìaha letto che amore è «il sole dell'ànima»(veroperchè dal sole vien l'ombra)che senza mùsica e amore la vita nonsarebbe che una lenta agonìae sìmili quiproquòci mostrerebbe impersuasola sorridente fila de' suòi bianchìssimi dentiamàndole senza la bucciaetirerebbe innanziplatonicamente incicciandoa confidare alla luna i suòifastidi col burro. Nènoitolga Dioci ostineremmo a guastargli l'innocentìssimodivertimento. L'uomo è nato all'inganno. Chi non imbroglia neppure il suoìntimo amicobisogna bene che azzitti la naturale necessitàimbrogliandoalmanco sè stesso.

Tuttavìa - fra noiche mastichiamo da un pezzo coi dentidel giudizio (¡pòveri denti! già la carie vi mina) - quella folla dalla tintapantrito e dalle fiacche morelle alle occhiajeè proprio d'innamorati. ¡Oamoretossicoso miele! ¡o amoreinevitàbil castigo! ¿chi mai non recaqualche sfregio di tèfosse pure il nessunoche è di tutti il più ingrato?¿chi può vantarsi fuor da' tuòi colpifinchè di nulla più possafinchènon lo vesta l'abete?... ¡O amorefonte di maggiore rovina che non la fame ela pestetu che le seinon di radoambedùe!

Ed ecconella interminàbil sequela delle vìttime tueungiòvane. A luibelloriccod'ingegnotutto sorrideva all'intorno. Non uncuor gli era viêtonon una strada chiusaed egli potevaper la preferitaprocèdere velocementechè possedeva carrozzatoccando la metatanto per ildemèritoquantoil che è più difficile assàiper il mèrito. Eppureilsuo volto è giallo come una foglia a novembreè vizzo come un borsello aNatale; eppurea paragone dell'ànimo suoil nero è un allegro colore. ¿Cheha mai? Il mèdicoche lo tastò e sperò e bussòci assicura ch'ei suonacampaninamente bene. Ma il scientìfico occhio non gli è giunto al cervellodove l'imàgine di una donna gli asciugainsaziàbile spugnaogni men vilepensierodi una donna di cui il giòvane spàsima la limòsina solo di unguardosenza osar di cercarla. Chèamoreil quale dà spesso impudenzaquìha tolto il coraggio. Lo specchio rende al giòvane brutta la bellezza di luinè intorpidito l'ingegno è lì a confortarlo con rammentargli che egli sempreconserva quella seconda beltàche per le donne è la primala numeràbilbeltà; dell'ingegno anzi di un tempo egli più non si sente se non quelbarlumeche fàccialo avvisto come l'ingegno sia ito. Esfiduciatocompletamentefugge gli amici il cui sorriso lo offendefugge l'umanoconsorzio di cui sospetta ogni occhiata; fuggealla finecon un'oncia dipiombol'insopportàbile sè - ¡a ventitrè annipensate!

Poiecco un uomo di mezza età. Era la gioja delle brigateil piatto migliore di un pranzo. Tanto tondo di corpoquanto acuto d'ingegnotenèa (caso non troppo frequente) il satìrico umore in perfetta bilancia collabontà. Scarso a fortuna - ed anche quel poco gli costava moltìssimo - glieneavanzava pur sempre per farsi un piacerefacendone altrui. La sua cassa arisparmidicèa eglièrano le saccocce de' suòi amicidonde traeva perinteressedi poter guardaresenza rimorso il passatoe senza paura il futuro.Tanto cheallegramenteegli metteva già il piede fuor dell'ùltima soglia digioventùquandonel vòlgersi indietro a serrare la portacadde in dueocchitùrgidi di desiderioche parèvano dirgli «aspetta». ¡Pòvero Meosei fritto! ¡Addìobalda scapigliaturaaddìo lùcide bicchierate e dormiteprofonde! L'appetito scomparsosostituito al sognetto il sonettole vesti glifanno saccala zecca dello spìrito suo più non conia epigrammisibbeneepitafi. Il buon uomo è diventato irascìbileè diventato intrattàbileveramente «moroso.» È allora che il suo capo d'uffizio comincia a lagnarsidella peggiorata calligrafìa di lui e de' protocolli macchiatie gli domandacon meravigliaperchè per Agosto copii Agostinae per quantoaguantaja. Perchè il capo d'uffizio ancor non l'ha visto in unacerta bottega di modead un banco e dinanzi una sninfia di tosarosso come unpapàverotutto sudato pel batticuore dello sforzarsi un pajo di guanti del settesu de' manoni del nove; nè sà che il nostro uccel di San Luca sivìrgola il pasto per inviare alla sua insìpida bella cartocci di parlanticonfettimandorlati di millefiorirosoli di lungo amorecioccolata con lacannellae altrettali commestìbili dichiarazioni. Nel chea onore del veroil galantuomo pigliava la rettìssima viaentrando le idèe meglio assài perla bocca che non per gli occhi e le orecchie. Mase più retta la vianon eraquella del buon mercato. A poco a pocole camerette di lui si sgòmbrano dimobiglia. ¿Che mai più orrendo d'amore senza quattrini? Bentostoil tabarrogli si consuma in ventaglio. Infatticon il caldo d'amoreera l'uno di troppoe l'altro di manco. Bentosto il suo fido orologio gli s'è fermato per sempre.¿Dove il tempo è perdutoa che un orologio?

Eper ùltimoun vecchio. Quì usurpo alla patologia.Costùial polo antàrtico delle passionitrovàvasi appunto in quellatemperatura indispensàbile alla conservazione di un morto. Egli spirava laragnosa maestà di una centenaria bottigliaparèa il granajo dell'esperienzae venìvano tutti a picchiare al suo uscio per domandargli pareri buonich'egliaccordava liberalmentenon potendo più dare cattivi esempi. Maa un trattola sua onesta canizie si abbuja nel più furfante dei neri; gli occhiali cèdonoall'occhialinola tabacchiera alla spagnolettail suo mangiagroppi-portiere altailleur de Paris. Gettati via i volumi dell'equànime scienzanoi lovediamoil majùscolo bimboricompitar febbrilmente l'ars amandi d'Ovidioe l'art d'aimer di Bernardo meditare il Meibonio de usu flagròrume la ricetta itifàllica di Arnaldo di Villanova; poitutto azzimato eolezzante sì da sembrare un imbalsamato cadàveresedersi sull'orlo de'tamborettilui malsicuro in una poltronagirando caprinei sguardispargendocome egli credeamorosi disastri. Ma il disastro è uno sololui stesso. Giàlo stramonio e la cànape hanno iniziato il loro tremendo lavoro. Infuria l'estromanìail tètano eròtico. Agonizzante ei s'aggiragli occhi ebetitile labbraschiumosebarcollando sull'usta di un'inarrivàbile donnach'ei bramerebbeinghiottire ne' suòi epilèttici amplessi...; O dottore! cessa il bromuro e lacànfora. È tardi. Non giova più che lo schioppo.

Orper chi vuole un contorno a questi trè assortiti salamiecco monti di suole inutilmente perdute e libri zeppi di pòlvere e calamàiassetati e lenzuola lògore dall'insonnia con schiene ancor più logorateepatrimoni in isfascio e laghi di làgrime con così fieri sospiri da cacciarliin burrasca. Chè se tu ti disperi di non èssere amatoil vicin tuo fà ciò oper èsserne troppo o non abbastanzae se taletradito da una diavolessastrilla come un porcellino di lattealtricui toccapiange di possedere unàngelo. Oh che burletta l'amore! Per luiun formaggiajo si accorgedopotrent'anniche c'è la lunae cercando una sommatrova la rima che un poetaha smarrito nelle idèntiche ortiche. Tizio và dalla magnetizzata con i capellidella sua baja; torna Sempronio dal professore Mercuri senza i suòi propri.Quì un cuocoabbagliato dal «caro oggetto» che saràpensouna treccaintingente la pettinina nell'aqua de' fagioletticòmpera luccio per trota; làAutomedontealla vista delle adorate spadineribalta con i padroni. In questaun pittoreeternamente copiando l'ùnico muso di quella che «sola a lui paredonna»esaurisce sè in compagnìa della pazienza del pùbblico; e intanto cheun organistapensando alla maestrina normalebacia piangendo il consapèvolbarbonela maestrina sovvenendo di lui pizzicotta stizzosa la sua dozzina discolarucci. E vi hachid'ingegnoinasinisce estasiato alle trullerìe chevèngono da una seràfica boccaoppure si ostina a lègger Petrarca e sonareChopin a chi non capisce se non Marchesini e Vernazzi; come vi hachinojatoalle pàgine le più rovaniane ossìa le più generosebrilla di gusto aisolecismi di cuorepeggio che di sintassidi uno di que' letterinicheincominciati offrendo un baciofinìscono domandando un marengo. ¡Ma e poi!¡che tragedial'amore! Tremala prima voltail gelato cassiere contando irotoletti dell'oroegli non scorge più cifresibbene gale e sorrisi; negal'amico il dovuto soccorso all'amico per soddisfare ai capricci di una inimica;il padre stesso strappa i pendenti alla figlia per appènderli a orecchie chedanno ascolto a chiunque. ¿Che più? Donizzetti muor scemo; smidollatoRaffaelloegiacchè siam fra gli DeiÈrcole torce le lane di Omfale (la suapeggiore fatica) ed il medèsimo Giovedall'olìmpica calmavà in ocavà inbue...

Mirao lettorela scarna cùpida faccia di chida quelliscacchi di ferrovede passare lìbera e fiera la ganza nella pompa di un lussoche il suo delitto le paga; odida quell'altra prigione cui fà da aguzzino laCaritài ruggiti di loroche hanno per un chignon perduta la testa;sognaa sfondola negra purèa del milanese Tombonedove tra fràcidi mazzidi fiori e scocciate bottiglietra mànichi di pitale e pisciatura con liocchivanno convolte le lìvide salme del tradimentopasto alle cheppie e aigazzettieri cronisti.

 

 

SCENA SECONDA

 

Quo mèntula mens.

 

Ma quìda tutti questi infelicicui toccaper giùngereal dolce gherigliomòrdere il malloo avanzagoduta la pescail nòccioloamaro - ànime in penache pùrgansi pel Paradiso o lo pùrgano - mi si spiccad'incontro un giovinetto con la cravatta slacciatae all'abbandona il cappellogridando «¡io la sposoio la sposo!»

Confesso; il mio primo pensiero fu di chiùdergli in mano unoscudoe di dirgli «spendi questo piuttosto»; ma mi tenni. Quel giovinetto erafuor del comune. Niuna fanciulla più vereconda di Nino Fiore. A luioltre lesimpatìe pel sereno suo volto dalla pelle di dìttamo e dalli occhioni ceruleimi legàvano quelle pel suo rarìssimo ingegnoun ingegno cui non mancavaperchè tale paressese non la mano di studioquasi greggio diamante cheattende la faccettatura. Senonchèsul più vivo delle speranzeera caduto ilmio Nino nel letargo amoroso. Pazienzaper chigià citrulloincitrulliscedel tuttoma per chinato a superare l'ocèanoaffoga nel secchiolinoognipazienza và in furia. Principalmentechè è della gente d'ingegnocome dicerti bibliòfilii qualiquanto più un libro è sprezzatotanto più locèrcano e àmanoo come di certi mosconichegira e rigira in un giardino difiorifinìscono a posar sullo sterco. Nino difatti s'era pigliato di una cosanon uomoe alto lì. Non un rapporto tra loro da quello all'infuorichemancava a colèi quanto ad esso cresceva. ¿Ma comedimando iopersuadere adun ebbro la sobrietà? ¿come provare a un illuso che le bellezze ch'ei miranovello Narcisonella sorgente de' suoi desiderinon sono se non le proprie?¿come infine distor l'assetato dalla tòrbida aqua presente con la promessa diun'altrabenchè cristallinalontana? ¡Ahimè! l'altrùi esperienza nonserve; ciascuno deve procurarsi la suache poi non si trova di avere raccoltase non giusto nell'ora di doverla lasciarenon laureàndosi l'uomo nellascienza del vìvereche quando già occorre (il che è forse tutt'uno) disapere morire. E se è veroche Nino veniva spesso da mè ad implorareconsigliegli in ciò seguitava il sòlito vezzo degli ammalati d'amoreiquali scòppiano tutti di confidarsi a chiunqueannojando il pròssimo lorocome sè stessi. Desideraredel restoil parere degli altrivuol sempre diredesiderare di sentirsi riaffermati nel propriomàssime errando. Non havviimpresa più temeraria del rèndere accetta la Verità che se quà e là sisopporta è perchè piglia in imprêsto gli àbiti della Bugìa.

Per cuiandato a cavare dal mio armadio di faccequella dicongratulazione:

«Bravo Nino» dissiserràndogli con espansione le mani«¡ me ne rallegro tanto! ¡Vedi tuche non ti sapevi dar paceperchèl'amore tardava! ¡mò ci hai fatto quintinae insieme tòmbola! Un giòvanecome tènon può non avere incontrato un complemento condegno. Sarèi pergiurare che in pìccolo è una perfezioneincominciando da quella mìnima delledotila dote...»

«Nono» interrupp'egli con gàudio«Gilda non tieneun quattrino. Io la scelsi col cuorenon colle dita. Volli lei per lei sola.»

«Sentimenti» ripresi«che ti farèbbero meritèvoledella medaglia al valore civileprincipalmente in giornatain cui «laGuida d'amore» è il catasto. Inoltrenon stai lontano dalla prudenza.Spesso ai mariti costa più la ricchezza che non la povertà delle moglimentrebàstano sempre pane e amore. Ese si vuole anche un po' di pietanzaèben presto supplito con un po' più di lavoro. Tua madre stessa...»

«Mamma» notò il giovinettomentre il rossore glilampeggiava nel voltoquale oro su argento«non ne sà nulla per ora. E ilcuor mi fugge a parlàrgliene. La famiglia di Gilda è sì... sì...»

«¿Bassavorresti dire? ¿ecchè importa? Nel socialeuniversocome nel fìsiconon c'è nè l'alto nè il basso.»

«Nonon è il basso che mi scoraggi. È il sùdicioilsudiciume morale...»

«E io ti ripeto¿che importa? Ciaschedunorotto il filoombelicaiefà a sè. Non v'ha terreno di vizio in cui non possa germogliare edar fiore la pianta della virtùchecome tutte le piantesucchia non radoubertà dalla stessa immondezza. Ci sono corpi che pàssano illesi per qualunquecontagio; ci sono ànime sì musicalmente foggiate...»

«Gilda non tiene orecchio» sospirò Nino.

«Terrà occhio» sorrisi.

«Gilda è stonata anche in ciò.»

«Allorao mi sbaglio o una più fina armonìa la rendeottusa per l'altre; la letteraria armonìa.»

«¡Nemmeno!» fe' il giovinetto sconsolatamente «Gilda nonsà lèggere manco. Ella non è che naturaè un pòvero cinquefoglie.»

«¿Come?» gli ribattèi«¿te ne duoli?... O amicomeglio così. Minore dottrinaminor vanità. A fare una buona nutrice e unabuona massaja non occorre troppo alfabetochèanzicon i libri del giornol'alfabeto è un perìcolo. ¡Comunque! l'ingegno innato compensa sempre lostudioche è l'ingegno d'aquisto. ¿Non ti par pena sciupatalèggere inaltri quanto in noi stà già scritto? Eappunto in ragione di questo suo statodi letteraria innocenzacose la ti dirà la tua Gilda ingenuamente sublimietucon essafuor dal timore delle sonate a organettopotrài sgropparti l'ànimoliberamente...»

«¡Mio Dio! no» fece Ninomovendo con malinconìa latesta«quanto al suo ingegnone hama se tace: il miobisogna che glielonasconda con ogni maliziaperchè la mi tòlleri. E inutilmente cercài diprestàrgliene. L'asciuttezza di Gilda è quellanon della spugnadel sùghero...»

«Basta peraltro» insinuài«per quel che deve servireche la ragazza sia sana...»

Ma il giovinettotraendo un lungo sospiro:

«¡Pòvera Gilda!»

«¿Che ha?»

«Ha le gonghe» gemette con un filo di voce.

Quì il volto mi si dipinse di un buon umoredi cui la metànon era proprio forzata:

«¡Evviva!» sclamài «tu se' nato vestito. Le ragazzeinfermicce sono pur le più buonechè invece il diàvoloper quanto si sànon fu mai indisposto ¿Che è mai la perla? una malattia preziosa. Cosìlapiù aerea soavitàla melancolìa più chiaro-di-lunavèngono spesso da uncrònico maleda una digestione cattiva. La tua fanciullason certoè dique' bòzzoli da cui sfarfàllano gli àngioli...»

Nino non potè trattenere un ghignuzzoe:

«Mira i segni dell'àngiolo» disse mostràndomi le suemani graffiate«e questo ¿saiper che cosa? perchè la pregài dolcemente dièsser più amica alla casa.»

«¿E che?» ritors'io «¿ne vorresti una mònaca? ¡Tutticosìvoi amantitutti tiranni! Lascialasciamio Nino. Una bella ragazzanon ha da covare la cènere; ha il sacrosanto dovere di andar dappertutto permantenere la estètica. ¿Sarà bellam'imàgino?»

Fiore mi guardò con sorpresa.

«Oh bellìssima!» fece.

«¿Un nasinoverotutto finezze?»

«Il naso è piuttosto ordinario; è schiacciato. Somiglia aquello di un pinch...»

«Indizio di onesta baldanza. ¿E una boccadiremodabaci?»

«Bacive ne stan sù forse un po' troppi.»

«¿E gli occhi... ampli... brillanti...?»

«Nopiccini e nebbiati.»

«¿E i denticàndidiaccolti?»

«A dentinon è molto felice. ¡Poverina! ¡sempre la bendaalle guance...!»

«Guances'intendedal tizianesco coloremòrbide come lacipria... ¿Parlo giustoo m'inganno?»

«¡Scusa! sono alquanto gialline. E per pelle... ¡Capirài!quando s'è avuto il vajolo...»

«¡Male col becco il vajolo!... ¿Del rimanenteunasveltezza di forme...?»

«Non dico di no... se è seduta.»

«¿Con una voluttà di manine...?»

«¡Ah! le ha goffe¿sai? ¡Patisce tanto i geloni!»

«¿E due mazzetti di piedi...?»

«Nonon li dire mazzetti. Gilda possiedeè veroil miocuorema gli occhino. Io stessose non la amassi tantodovrèi chiamarli...chiamarli... (e con titubanza ) «cassette...»

«Egiacchè l'amidi' cassette di fiori. ¿Perchè miadocchi sì intento? ¿Dùbiti forse ch'io celii? Noamico. Tutto sommatolatua futura metà può èssere ancoracome dicevi sul primobellìssima. Moltebellezze nàscono appunto da un complesso di errori; anziti proverò qualchegiornocome la vera bruttezza stia solo nella perfetta beltà. In ogni modouna donnainnamorandoabbelliscepiù o menos'intendea seconda della suainterna passionecomein ragione del vinosi fà bello il bicchiere. ¡E Diosà quanto ti amerà la tua Gildainvidiatìssimo amico!»

Ma¿ecchè? Ninonelle pupille del quale già tremolavanoi luciconia questo punto non tènnesi più e nelle braccia mi caddein unatroscia di làgrime «¡Eccoecco» singhiozzò egli«la spina che stracciòtutto il mio cuoreecco il martello che mi ha frantumato l'ingegno! ‹Gildanon mi ama›. Io bacio sempre i suoi labbrimai i suòi baci; e se ella pur mene dona - oh baci senza scoppio nè lingua! - è come li desse a suo padreanzia suo nonno. ¡E sò di non èsserle in mente che quando le sono negli occhisò di non farle se non da gratùito suggeritore per il suo pròssimo amore!¡Gilda non mi amanon mi ama!»

Taqueincontrando il mio sguardoche dalla soja era balzatonell'ira. ¡In veritànon si poteva più fìngere!... e sotto il mio sguardoNino chinò vergognando il suo.

E già subentrava un imbarazzato silenzioin cui rimordeva amè dell'ingannodel disinganno a lui; quando:

«¿Concedi che si ragioni?» gli domandài.

Fiore acconsentì con il capo.

«Non è bella» seguìi«non è ricca¡e ciò passi!¡Non è neanche istruita; e passi! Non è sananon buona... ¿Che è dunque?»(egli arrossò) «¿Vèrgine?... Non giurarlo. Ogni donna può attraversare lasua mezza dozzina di verginità. Pur¡foss'anche alla prima! ¿stìmami unpocoperduta la spiritualequella del corpo? Ed eccocontuttociòtu tiostini a fantasticareche l'ànima tuaalla quale le carni rèndonosidirebbel'ufficio della lampa alla fiammasia proprio fatta per unatutt'alpiù concessa alle carniqual saleperchè non marcìscano; chea tè lametà di una pera sia destinata ab aeternoper completarsila metà diuna rapa; e così vuòi da una cosabuonanon dirò per un annonon dirò perun mesema per una sol nottefarti la indivisìbil compagna per tutta la vitaed accordando a' suòi vizi la firma dell'onesto tuo nome¡vuòi che la stessatua madre acconsentaanzi goda alla completa comune rovina!...»

Il giovinetto ebbe un singultoe fe' per rispòndere:

«¡Attendi! Forseche pensiindovino. Pensiche non sigioca impunemente all'amore e che una fanciulla non la s'inganna. Nulla di piùgalantuomoe in ciò ti stringo la mano. Restaperaltroa vedere se quì sidà tradimento. ‹Gilda non mi ama› tu lo hai detto trè volte; dunquese tutradisci qualcunoè... tè stesso. Ella non ti amaeppure vuòi farla tuavuòi di unala quale forse con altri sarebbe felicefarnecostretta tecouna infelicìssima. ¡Àurei sensi davvero! Mèditiin conclusioneunostupro!»

Nino mi occhieggiò con corruccio. Io soggiunsi:

«Perdonase mai ti dicoin isbagliola veritàquindi tioffendo. Maquel vero che irritagiova. L'ànima tua è forte. Essa nonchiedeper sostenere il salutare martirionè tregue nè cloroformio.

«Chè se con altri avrèi già chiuso il registroo non loavrèi manco apertodebbo con tè aggiustar le partite fino all'ùltimospìcciolo. ¡Ànimo dunque e t'annoja! Metà dell'arte per camparla men malestà nel sapersi annojare con leggiadrìa.

«Ho parlato all'amico; parlo ora al poeta. E a lui ricordoanzituttoche tal dei romanzicui dà fine o la morte dei così detti eròioquanto viene lo stessoil lor matrimoniotal'è di una artìstica vita. ¿Mòperchè soffocar la certezza nella speranza? ¿distrùggere il frutto nel fiore?¿Rèputi gloria il suicidio? Oggidìbadaalla Tragedia si ride.

«Pazienza se si trattasse di una passionediremmoin cartasèmplice; megliodi contrabbando; ancor megliocon la cavata del tradimento.Passioni tali càcciano il sangue in subbugliofermèntano in genio l'ingegno;edal mosto tornato a posaresi spilla un vino coi baffi. Al contrariononhavvi acciajo d'artistache non allenti in fer-dolce nella lunga lunghiera diun amor maritatodove bisogna rimasticare la felicità che s'è appenasmaltitae Cupidogià insinuàtosi dalle fessureper non restar carceratoin un sepolcro di cicciabàttesela-vìaintanto che puòdal portone.Poichèa ordinare le idèeche accòrrono tumultuarie alla chiamatadell'entusiasmopuò sì giovare la calma della stanchezzanon però dellanoja.

«Imaginiàmoci poiquandocon lo sbadiglio di essa nojasi concerta anche quello dell'appetitoe la miseria si asside nel vacuofocolare. ¡Purtroppo! non è che una la testa. Fà che stia sempre in cucinanon sarà mai in istudio. Ed ecco colùiil quale rifiuterebbe per sè la piùlucrosa indelicatezzaimplorare per altri - i suòi figli - le men promettentiviltà; ecco il poetacui la medèsima fame conduceva alla Famapèrder peinùmeriil nùmero. ¡Buona notte al poeta! Se mai l'alloro entra ancora in suacasasaràtutt'al piùper coronargli il tacchino.

«E davvero che l'Arte è come il Dio che và passando dimoda. Essa è gelosa dei cuori che le son dedicatinè concèdesi tutta se nona chi a lei si dà tutto. Tra i quali devi èssere tuperchè puòi. Sei dique' pochi - làsciami dire - che giùngono al midol del pensiero; ti è unorologio il cervelloche segna i minuti secondi. Solo difettola tua stessaabbondanzail tuodirèidorar l'oro. E la fiducia mi tiene che ti si serbaalla gloria una sedia a bracciolidi cui già intaschi il biglietto (e se nonl'usi¡tua colpa!) fiducia che in tè pure verràallorchè in mezzo allageneral sconoscenzaquasi rè travestito fra ignari vassalliinorgoglieràinel segreto della tua propria grandezzae cheinvadendo poi tutti - comeappenainvecchiando l'artistaabbia il tempo raggiovanìtene le òpere -muterà il vile spregio in una più vil piaggerìa.

«Ti sia dunque famigliao mio Ninoquella che sola siaddice al tuo nòbile ingegnole cui imàgini scrittequali i pinti ritrattidegli aviti sorrìdon dai palchi di ogni gentil librerìa - tèlorocarìssimo erede - e ti sìano figli i tuòi librichecome figli veraciseti daranno sul primo fastidicompenserànnoti poi con centùplici giojetinutriranno in vecchiajae non potendo più altroprotrarranno il tuo nome.Gente vi ha condannata a generare uòminigenteidèe; ed una idèa puòdirecome di sè Garibaldi ‹equivalgo a un esèrcito.› O tu amorinopiccinoche hai d'uopo di scaldalettosempre con l'occhio alla sola tuapèntola¿che mai mi diventi a confronto di quella carità universale per cuile geogràfiche carte non hanno colorinè fogge la umanità; di quell'amoreche non si consuma nel seno infecondo o di Làura o di Creziamaattraversandoinesaurìbilesècoli e generazioniconfortaconsiglia cuoriinfinitirialza gli stanchi intelletti che nella terra precedèttero il corpoo cambia in lacci di fiori le ferree catene che ne rattèngono il volosfoganella dolcezza delle poètiche làgrime l'astioso pianto inturgidito nella nudarealtàdà affettidà ingegnoa cui Natura non diede o tolse Fortunadà aScienza i novìssimi semi e i frutti di lei a Ignoranzadà alla Miseria lefeste della Ricchezzae a costèi il goderle di quella; riunisce infine in unartìstico bacio tutte quelle ànime scompagnateanelàntisi invanodallaSorte divisedagli spazidai tempi!...»

Cessài. Camminammo in silenzio. Era Nino fieramentecommosso. Nel volto di luicome nella lìmpida aqualeggèasi un battibeccotra i suòi nervi e i suòi mùscolientre son âme et son âne. Finalmentee' ristettee baciàndomi in boccaesclamò «tu m'hai sâlvo.»

Maeccouna frotta di modistinezampettando-via svelte coilor scatoloni gravi di leggerezza. E una biondaun po' scarsa di gambee tuttofarina la testa (pani defraudati alla pancia) volge al mio amico un musettocheparèa dovesse gnaularefisàndolo cisposamente. Nino dà un balzo. «¡Lei!»dice a mè; scioglie dal mio il suo braccio e còrrele appressocome pesce cheabbocchi.

 

 

SCENA TERZA

 

Idillio.

 

Fortunatamentequell'incessàbile forza (chi dice CasochiProvvidenzachi Dio degli ubbriachi) la quale - come un paziente maestrochecorregge man mano gli errori de' suòi scolarucci - òbbliga il corso dellesociali vicende pìccole e granditurbato dalla ragione dell'uomoa ricomporsisempre pel megliofece anche quìnel mìnimo caso di Ninoquanto nè lalògica mianè la poesìa di lui avèan potuto. Nino cioè fu tradito! fu (sòlitastoria da Minosse ai dì nostri) posposto alle spalle facchine e alle occultevirtù di un briccone; sul che osservonon tanto ad esempio di chi potrebbetradire (chè gli esempi son fatti pel camino e i marroni) quanto a conforto dichi rimase traditocome l'amante nuovo sia spesso la miglior vendetta delvecchio. Del rimanenteuso quì il verbo «tradire» che non dovrèi; edavveroil mio amico èrasi sbarazzatosenza rimèttercidi una falsa monetaèrasi onoratamente liberato da un dèbito vergognoso; par dunque che avrebbedovuto sentire quel refrigerio che un àsino prova quando gli si leva il basto oun suonatore d'orchestra quando rinchiude il messale di un'òpera dellagiornata. Eppure no - ¡guardate riconoscenza al destino che spesso ci salva anostro marcio dispetto! - Nino si disperònon da burla; per poco nons'ammalòe lo si vide lumacar per le stradegiallo di malinconìacurvo dischiena e di sguardodialogando tra le labbra e le ditaa mo' di un fittàbilein piazza. Seppi poiche egli stavain que' dìmaturando un suicidio. Ohquante voltedopo di avere con cinque lugubri sigilli solennizzate le sueùltime volontà (e non avèa a lasciare se non una cosala mamma) appoggiossialla fronte una pistola... vuota; oh quante impugnò con precauzione quel rasojoche non era mai stato capacenon dirò di disfargli la barbama nemmeno difàrgliela. E Nino si andò a specchiare in tutti i pozzi del vicinatopur ebbetanto coraggio di non accòrrere all'imàgine suaaccontentàndosi invece ditiràrsela a sè nella secchiae Nino sfogliò il dizionariochìmico-farmacèutico dove si parla di veneficio (che è quanto dir tutto)dando peraltro un'occhiata anche al poscritto dei contravveleni; Nino giunseperfino a notare ogni possìbile morte in altrettante buschettesortèndoneuna. Nulladimenosiccome l'estratta gli sembrò la men bellagittò a monte leschede e si die' a meditare «quel benèvolo modo e voluttuoso di pena - comedicèa l'umanitario suo professore di diritto penale - in cui trionfa lacorda.» Ed ecco Nino tentare la solidità degli arpioni di casa ed allacciarvigià il cappioquandocricchiàtagli sotto la sediascèsene prudentemente edecise (sopravenèndogli in quella il carbonaro col sacco di negra mortecommesso il dì prima) di morire - avèa appena pranzato - di fame.

Ned io gli contraddissi¡chèh! ben in contrario applaudìidi gran cuore alla sua econòmica risoluzioneche già duravaquand'egli me lanarròda ventiquattr'ore; me lo pigliài sottobraccio e tràttolo in un'osterìa(imbruniva) gli presentài un buon bicchiere di rossodicendoche ciò gliavrebbe ravvivato le forze pel suo romano propòsitopoichèdel restoeglisi era impegnato a finir dalla famenon dalla sete. Nino fe' una boccuccia disvogliaturama bebbe; anziribevvechè non s'accorse - tant'era assortonella cupa sua idèa e in una cesta di allegri panetti - del mio ricolmargli latazza. E allora io mi divertìi ad aggiùngerechetrattàndosi di un suicidioin cui almeno occorreva un lungo digiunoegli avrebbe ben fatto a preparàrvisicon una scorpacciataper poterloil digiunodurare sino alla fine. Ma nullarispose l'amico. La sensibilità del suo orecchio era tutta assorbita da quelladell'occhio. Nino più non seguiva il mio direbensì la forchetta con cuiragguazzavo e avviluppavo una montagna di maccheroni. E d'altronde - ripresiingollàndone una forchettatache Nino accompagnò d'un sospiro - un bocconcinogli avrebbe non tanto attutita quanto aguzzata la fameche appunto era quelloche si desiderava. Ma il suicida bevette in silenzio un terzo bicchiere...¡Davvero che il vino incominciava a pensare per lui e assài meglio! La suamano che avèa intanto appallottolato la mòllica di un mezzo paneallungàvasiall'orlo della mia vuota fondellastrofinàndovi-via un baffo d'intìngolochepoi recava sbadatamente alla bocca. E lìil cameriere gli depose dinanziforse in isbagliola tentazione di uno stufatoe il mio amicoin isbaglio puresso... ¡Alle corte! colùi che avèa fîsso di morirsi di famepoco mancònon crepasse d'indigestione.

Maquando l'indigestionetiràndosi seco l'amorepassòdalle budella di lui in quelle della cittàl'organetto di Ninobenchè intono diversoriappiccò la sonata. Volata vìa la vesparimaneva lo sfrizzo.Avèa la botta amorosa evocato alla pelle l'ammaccatura dell'odio. Nino si diedea chiamare la mellonàggine suabirbanterìa degli altricome chitombolandoincolpassenon le sue propriema le gambe del pròssimomettendo laignorantìssima infedeltà di una brindàccola sul conto di un sesso interoanzidi tutto il gènere umano. Ottimo segno peròchepiù l'odio siallargae men nuocequando pur non approdi; com'è del solfòrico àcidodicui il cucchiajoche da solo ti uccidepuò in una secchia di aqua offrire aipòveri infermi (stando almeno ai rapporti delle amministrazioni pie) un'aggradèvolelimonata. E a questo gènere umano avrebbe fattoil mio Ninocose da rimandarCalìgola a scuolaavesse solo potuto. Non potendo altrolo privò della vistadel suo tòrbido voltoriparando a quel covo d'ogni ambizioso fallitoche èla campagna. Poichè anche amore è ambizione.

Ed è dalla villachedopo un buon meseio ricevetti laprima sua lèttera. Evidentemente il misàntropo volèa che gli uòmini sioccupàssero del suo non occuparsi di loro.

 

«Amico;» dicèa la lèttera «¡Vinta la malattìa! Cilasciài mezzo il cuorema l'altra metà è affatto guarita. Sol con usciredall'infetta atmosfera ritrovài la salute. Mano mano che mi allontanavo daquella volontaria prigione che si disse cittàda quella mora di pietre con cuilapidossi Natura per erìgerle-sopra un monumentale ricordomano mano che unàere meno denso di vizi entràvami nel polmonemi si ossigenàvan le idèemisi alleggerìvano; più l'orizzonte ingrandiva e più s'ingrandìvano. E lanotte scese; una notte tutto stelle e silenzi qual non avevo mai vista.¿Infattichi può col volto nel fangocomprèndere il cielo? Malinconicamenteil misterioso desìo dell'indefinito mi strinse. Dimenticài il terrestresepolcro del corpomi sollevài come fiammae per gli stellati ocèanipeisoli e le terreper la universa immensità navigando con Brunotravidi lafonte dell'intellettuale Amore e l'ànimo m'inorgoglì. ¡O amico! solo doveNatura riaquista il passo sull'ingrata sua figlial'Arte; sol dove è datoscordarcialmeno per pochi istantidi quel tessuto di convenzioniin cui cisiamo abbozzolati noi stessiche è reggia e càrcere insieme; solo fra icampidicol'ànima può ricongiùngersiaquietàndosiin Dio; mentre non èche in cittàdove fanno da stelle i becchi del gas e viene il cantar degliaugelli dalle gabbie e le stieessendo ùnici prati i verdi tappeti del gioco eùnici monti que' del pegno e del fimodove regna pei cani la museruola e peiloro padroni la polizìadove chiàmasi industria la truffaurbani costumi ivizi e verità la menzogna più in crèditoè solo - o amico - in cittàcheun èssere ragionèvole possa scèndere al puntodi trovare la fine de' suòidesideriil suo complementoil ben sommo... tra due coscie di donna.»

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Ed ora ti stò scrivendo dalla ‹biblioteca› di mio ziocurato. Certoricorderài don Vittorequel sgrossa-messe-e-ragazzecol suocappellone a pane di zùccherola cacciatora eterna e le ghettesì dasembrarenon un ministro di Dioma solamente un brigante. Benemio ziosenzasaperlopossiede una librerìa capace d'imprestare l'ingegno a una tribù discrittori. Quando gli chiesise avesse qualche volumefosse pur scompagnatoegli mi porse una arrugginita chiavacciadicendo ‹guarda›. Mio zio non hadi lucente se non la chiave della cantina. Quanto ai librinon si son salviche per amore della legatura. Don Vittore li ammontonò in un cameronedovemetteva una volta la frutta a marciree là li tienecome terrebbe un castratoun gineceo. Ma a luiper crèdersi dotto ed èssere tale stimatobasta diaverein casa la scienzae fuori il più persuasivo dei pugni.

«La qual librerìa fu messa insieme dal pàrrocopredecessore che la legò al presbitero. La sua particolarità e il suo pregiostanno nel riunìrvisi quanti scrittori dìssero chiodi in femminile materiadall'òpera la più massiccia al più bizzarro pamphlete siccome lamaggior parte ne dissecosì ne segue che la raccolta sia anche voluminosa.Perocchè il vecchio curatoche era di quelle letterarie tignuole quaelìttera vìvunt (cioè l'opposto del nuovo) quantunque incapace di nonèssere buono con tuttipreferivain teorìadi professare contro il sessopeggiore - forse amàndolo troppo - un odio da vìncere quello di un Francescanoad un Domenicanoodio che la continua società con idèe adulatrici alleproprie gli confortavainspiràndogli inoltre quella eloquenza dalstrappa-pelle sarcasmo e dall'ingiuria libidinosala quale chiamava la gentealle prèdiche sue da venti miglia lontano e le affollava... di donne.

«E però cominciàialzando le veneràbili legatureverepietre di tombacon gran disturbo delle tarme e dei ragnie rimovèndone ditanto in tanto qualche topo crepato (altro effetto di scienza) a lèggere imièi misògini autoria ridonarlialmeno per pochi giornialla vita. Macontagioso è l'ingegno. Tutte quelle ideone e ideucciesucchiate da Giovenalee Lucrezioda Pope e Lucianoda Tertulliano e Grisòstomo e vievìasiaccoppiàvano fra di loromoltiplicàvansi nel mio cervello e lo affogàvan nelnùmero. ¿Come mai liberàrmene? Fermài di sfogarle in un libro cheusufruendo il mio statoriuscisse per quel periglio domèstico che è l'altranostra metàaltrettanta pasta badese. E in veritàl'ira mia congiuntaall'ira già in camponon può non formare un terrìbile esèrcito. Scopriròscelleràggini che le medèsime ree non sospèttano mancotroverò frasi eparole da incenerirle issofatto. Scandolezzando¡meglio! avrò giustamentecolpito.

«Attènditi a grandi cose.»

 

Ma io scossi con diffidenza la testa. Non facèvano le bricedi lui a' mièi polli. Quel suo non trovare nella provvidenziale malvagità diuna Gilda argomenti bastèvoli a rimèttersi in bìlicoquel suo accattaredifese dagli altrie difese che per èssere troppe s'impedìvan tra loromostràvano chiaramente cheo il vecchio amore gli si ostinava nel cuore o cheegli avèa già esposto l'«affìttasi» per uno nuovo. Ed io mi consolàiriflettendo:

Primo; cheper un verso o per l'altroavremmo un librodi Nino. Anche gli erroriprincipalmente del genioson degni dirispettosìssimo studionè la menzogna potè mai contenersi se non in un vasodi verità. Secondo; che i fatti nàscono continuamente a confusionedelle teorìe. Il nuovo inquilino nell'amor del mio amico non avrebbe moltotardatoe chi ha esperienza in propòsitosà che da questo al centesimo correassài meno distanza che non dal primo al secondo.

Difattia complemento di questa mia ùltima consolazionebenchè¡ahimè! a totale sterminio dell'altranel tèrmine di una settimanalessi di lui ciò che segue:

 

«¡O amico!

«¡Nunc scìo quod sit àmor! Colèi che sempremancàvamiho finalmente trovato. Il mio cuore è gonfioha bisogno diespàndersidi cantare il Tedèum.

«¿A che narrarti la noja della via percorsa? La presenteimmensa felicità cancella ogni orma faticata a raggiùngerla. Basta tu sappiache non son più da mio zioin quella bassura di prosaspessàndomil'intelligenza in una pingue cucina o imputridèndomela in un cimitero di librima sono sul cùlmine di una montagna - lìbero come un poeta - presso un cuoreche batte in consonanza del mio.

«È una pastoraè un fiore gagliardo dell'Alpi. Iocheprovai l'amore morbosocomprendo ora il salubre. ¡O voiai quali più aggradail sasso malsagomato del greggiovenite a veder Cherubina! Quìnulla di queisentimenti nati gualcitidi quell'istinto di frodedi quella fecondità dibugìedonde sono impastate le vostre cittadinuzze; tutto è fresco e sincerosguardolabbro e coscienza non disaccòrdansi mai. Quì nulla di quell'ipòcritacastimonia che rende odiosa l'onestàma il fidente abbandono delle purìssime.Questi sì che son bacibaci porpureiche schiòccanoche làsciano ilsuccio. Cherubina è affatto ignorante di tutta la chincaglierìa dellegraziettedelle smorfiuzzedei complimentio in altre paroledel galatèocittadinesco della lussuria; pur sà qualcosa di meglio ‹tacere›. Eloquenzadi leil'innocenza. A duemila metri sul maredifficilmente và il vizio; essonon và che dove arrìvan carrozze. E parebbe che Dio le avesse dato la vocecome agli augellisolamente pel canto. Io ne odomentre ti scrivole notecampanine e squillantiche fanno concerto tra rupe e rupechiare come izampilli della sua alpeallegre come l'ànimo suo. ¡O amico! ecco l'amoredagli ampi polmonie dall'orizzonte senza confinicui le montagne son stanzae il sole lucerna. Ecco l'idillio...»

E lì Ninodiffùsosi alquanto su esso «idillio» nelgènere Fontenelle ossìa da parafuocobenchè avesse del restopercontrafforteuna soda maschiotta

 

«assài brunagrassoccia e morbidina

come una quaglia con attorno il latte»

 

conchiudeva:

 

«Ho risoluto di nobilitare al giardino questo fiore dicampo.» (¡addìo idìllica semplicità!) «Voglio educar Cherubinaperpoterla poi dire ‹mia tutta.› Oggi stesso comincio. Allorchèguancia aguanciasederemo al tramontole sveleròin presenza dei cieliil misterodell'alfabeto.»

Sin quìNino. Ed io rimasi colla curiosità di sapere comeandrebbe quella prima lezione «in presenza de' cieli» e propriamente fino aqual lettera. Nè molto aspettài. Me lo disseil dì dopoil seguentebiglietto:

«Carìssimo;

«spedìscimiti scongiuroun bàrattolo di stafisagria.»

 

 

SCENA QUARTA

 

Fiori.

 

È sera e siamo in istrada. Due belle ragazzein quella etàin cui tutt'intorno par lor ripetuto quel «sì» che le sèntono dentrosostàvano sobbracciate davanti le luminose vetriere di un caffèraccogliendodi tra 'l scucchiarìo e il vocìoi gratùiti suoni di una orchestrinauno diquèi rimasugli dei godimenti degli altricome i falliti carnovaleschi gettonigli effluvi de' rosticciàii mozziconi di zìgaroi razzi e gli areòstati alvoloche fanno la parte men triste delle proprietà di chi non ne hanellequali primèggian la ruota e la strada maestral'ospedale e la càrcerelaforca e la fossa comune. Bellechiamài le due tosema fu un complimento.Propriodi bellanessuna; la nera peraltro scusava. E le lor vesti diumilìssima stoffa ma di irriprovèvole taglioce le dicèvanoa un tempooneste e sartine.

«To'la Milia» esclamò Bortolinapìccola biondacheavèa un visoccio paffutamente scipito come la dama nelle carte da gioco. Estringendo il braccio all'amicaaccennava ad una magnìfica giòvaneche nelcaffètutta trine e velluti e sopra sè andando al pari di una reginaporgevada una cestellaa dritta e a sinistrafiorie promettèvane altri piùriservatia trè o quattro di que' scozzona-cavalli in pelle da gentiluomodetti ancora lions da chi non li ha uditi a ragliare. ¡Pòveri fioricolti per tutti! andavate ben presto sul vostro fatal mondezzajo.

«¿Ti ricordieh? Pippetta» continuò Bortolina«quandola Milia veniva a scuola dall'Honorine e non aveva pur sottanine ed eratutta pàter ed ave e metteva il suo pan di tritello accanto alnostro formaggio per dargli un poco d'odore? Eccoin men che non cuoca unaspàragobuttati via gli zòccoli e tolto un nome di scartoCorala ci passadinanzi senza più ravvisarciperchè ha orecchini di diamante e gonnella di moire.¡Guarda! toletta nuova anche oggi. Milia stà al primo piano; tien cameriera euna corte di servitori pagantivà ai bagni di mare e alle aqueviaggia;mentre i giornali le fanno il trombetta e la sua faccia bronzina è venduta finsulle scàtole dei zolfanelliinsieme ai ritratti di Cavour e Manzoni...»

Ma la seconda fanciullala neradi cui la selvaggiamagrezza o piuttosto asciuttezza delle forme e del voltotradiva gli intensiinsoddisfatti desìi:

«¿Sai che cosa t'ho a dire?» interruppe«che le sciocchesiam noi ad èssere quello che siamo; noiche al disopra di un quinto pianociostiniamo a gettare la notteche è del piacerenella fatica; cucendocon gliocchi rossi dal piantole gaje vesti della baldoria; allargandocon lostòmaco stracco dalla vuotezzail corsetto della fanullona che impingua;impellicciandocon le dita agghiadategli altrùi ripari del freddo; e tuttoquestoper guadagnarci... ¿Cosa?... tanto da prolungare la fame. Ah! ¡gliscrùpoli al papa! Un dì o l'altro dò un calcio allo scatolone ed imbraccio ilmio panierino di fiori...»

«¿E l'onestào Pippetta?»

«Gonfia parola come la panna montatache ti riempie labocca un momentoe alto lì; parola inventata dai ricchi per salvarsi daipòveri. ¡Tàgliami fuori una giubba da questa tua onestàse sei buona;sòffiaci soprase puòiperchè la ti scaldi la zuppa; pòrtala al montesenza Pietà e là chiedi che ci affìdino sopra! Prèdichi pure il prevosto -lui che suda butiro e sospira di... replezione - che le oneste figliuole hannoil vantaggio d'andare attorno con la fronte scoperta. Intantoil rossore dellealtre è coperto da una veletta di pizzo; intanto noi seguitiamole onesteinabituccio di telaa imbastire il velluto delle inoneste. NonoBortolinanonmi s'imbroglia più altro con una tale parola sì opposta al nostro benèssere.Ho risolto. Domani colgo i mièi fiorie mi offro...»

«Tua madre lo impedirà...»

«Mammatoccando questi» (e fe' l'atto) «diventerà ciecae sorda. Certose mi frullasse di peccare con uno che non potesse divìderemeco se non il puro peccatoella ne inorridirebbemi coprirebbe d'ingiurieesapendo ch'io non troverèi altro tettomi caccerebbesenza rimorsodal suo.Ma fà che colùi sia un manzetto indorato quale il contino Pavìa o ilcavaliere Formaggia od il Nàum (chein confidenzami fanno già leocchiatinepedinàndomi in strada) e mamma si glorierà di servirmiellastessada portinaja. ¡Scema! a tiro di dueil vizio non è nemmeno piùvizio; a tiro di quattro è già una virtù.»

«¿Per cuiaddìo Carlo?» dimandò Bortolina.

«¡Pòvero Carlo!» disse Pippetta con una tal qualeamarezzae taque un istante. «Ma» aggiunse con smania«alla mia età unafanciulla è fuoco. Io più non posso camparla a sola speranzacon le ragnajeche m'invàdono il senoodorando piaceri che mai non giungo a gustare; io piùnon voglio sentirmi a spedale con un cuore da rè. Carlo pazienterà. A luidarò il mazzolino per nullagli aprirò un negoziettogliel empiròd'avventoripoiquando n'avrò in costa abbastanza da potergli èsser fedelelo sposeròse ancora non mi odia...»

«Carlo è sì buono» insistette Bortolina.

«Di là di buono» rincarì la compagnaaggiungendoperaltro (il che ci dispiace)«tanto buono che la sarebbe inverso laProvvidenza una ingratitùdine a non accoccàrgliene qualcheduna. Ein fondo¿che gli farèi? Gli farèi un po' prima nulla più di quanto molte gran dame(piglia ad esempiola duchessa di Stabia e la baronessa Caprara) hanno fatto ailoro signori sposini un po' dopo...»

«Ma una volta che la pèntola è rotta...» saltò su a dirla quietinae insieme arrossì.

«Eh ci ha magnano per tutto» ribattè l'altra. «Un filodi verginità avanza sempre...»

«¿E se ci resti?»

«In nove mesi c'è tempo di non partorire.»

«¿Ma e la coscienza?»

«Altra parola da mandare a braccetto colla onestà.Coscienza è sì dolce di complessioneche ogni qualunque panzana la quieta.»

«¿Dunquenessuna paura di andare in bocca al...?» eBortolina non osò proseguire.

«¿Paura io?» fece Pippettasbottando in un'aspra risata.«Chèh! ¡se è il diàvolo anzi che dovrà farmi il corredo! ¡O credarellaben altro ci vuole a pèrdere un'ànimafosse pur d'un bottone! Per mèodosempre il prevostoquando dal pùlpito grida ‹imitate la Maddalena.› Oraper rettamente imitarlabisogna incominciar dal peccato. Il pentimento vienpoi. Chè qualche cosa da fareun po' nuovovà riserbato per la vecchiajaquantunque di penitenzaa dire la veritàne abbiamotanto io che tèanticipata fin troppo. ¡O Bortolina! non ti confòndere. Vedrài che Pippettati raggiungerà in Paradisoe ¡chissà mai! per la scala del taccuino. ¡SantaPippetta! ¡che spicco! Giàlo disse il prevosto‹tutti i gran santifùrono gran peccatori.›»

«Basta; fà tu una cosa per bene» profferì la biondina ametà persuasa.

E la nera: «Tutto stà a infilar giusto la strada.»

Main quellaun vecchiastro - chesoffermato lì pressoorecchiava - avanzando nel mezzo delle loro fragranti testine una faccia tra ilcimitero e la parruccherìadalla pupilla e dal labbro oscenamente obliqui; eaccomodàndosi insiemecon la paralìtica manosulla nera cravatta di rasouna spilla a brillanti: «Bimbe» balbettò con la bazza«¿possoinsegnàrvela io?»

Tra di esseda braccio a bracciopassò un significantesussulto. Bortolinaabbassando lo sguardoimbragiò: l'altra si volse conocchi allegri… alla spilla.

 

 

SCENA QUINTA

 

Lire cinque d'amore.

 

¿Matricolinoche fai su quella portuccia dal semiapertocancellodal lungo àndito scarsamente illuminato? ¿che faitra il voglio eil non voglio di una novìssima sposanell'una mano il borselloun lucicored'argento nell'altra? ¿Dùbiti forse di non averne abbastanza? oh non temere!C'è amore di tutti i prezzi. Fìdati nella tariffa. Entra. È porta larga achiunquecome quella di un tempio.

¡I parenti! i parenti! ¿perchè protrarti l'impaccio delleor cadute catene? E sì che ben sai come ti trovi quà solodi nottein unabuja città dove t'ignòrano tuttifuorchè un padrone di casa il quale badapiuttosto al tuo fitto e ad un bidello d'universitàpuro custode di nomi. Laimportuna affezione de' genitori ti è finalmente lontana. Mamma che tiaccompagnava finquìper porre una mano d'amore nel noleggiato tuo nidoègià tornata alla villae ti stà imaginando in un bianco lettino odor dilavanda con l'àngiol custode a rincalzarti le coltri. Ella crede: ¿non basta?Il vero fu sempre individuale apparenza. Finchè credutotal dura. Equanto albabbo che russaoh non dàrtene pena! Egli conosce gli umori del mondo. ¿Nonlo hai udito tu stessoallorquandonell'imbottirti il borsellodicèa «ètempo che Silvio impari la vita.» E la vita è questa. «È necessario cheSilvio diventi uomo.» ¡Entrafanciullo! Uscirai fatto uomo.

Maforsetu sei un pochino poeta; sei di que' strambi daidesideri senz'orlaturacheguardando la lunacrèdon giovare alla terra; eillùdonsi di riformarla con il metro e la rima. Fors'anchet'hai messo insiemeun'amorosa a mosàico - tra la nùvola e l'ombra - e la sospirila attendinonla vorresti tradire. Ah! ¡poverino! ¿perchè affannarsi a raggiungere un«là» che mai non è «quì»? L'uomo e il suo idealesono le ruote di unmedèsimo carro che sempre si còrrono appresso e non si tòccano mai. Sìaspettaaspetta. Ti sciuperài vanamentequal solitaria accesa candela che nonillùmina se non lo struggersi suo. ¡Pròvati intantocol mondoa vantarequesta poètica verginitàtu ìntimo orgoglio! ¡Ecco il rossore! ¡ecco lasoglia del ravvedimento! Vàrcalasognatorello; rientra... nella Realtà.

¡Ma Dio sà che diàvolo ti fu impastocchiato di noi! ¿Noivero? ¿le balconierele erranti? ¿noi le scucitele avvelenateleeccètera? Il dizionario par fatto a nostra ùnica gloria. Gli è il rosariod'ingiurieche ci rècita controogni giornoquel catechista dal grugnosinistramente compuntoche non dovendo aver moglie ha maritoo quel maestro discuolaletterario purista dalle eròtiche sgrammaticatureche mai non passa danoiperchè passiamo da lui. Oh fuori dalle ipocrisìe! Tutte le donne sono unastessa sonata. ¿Che importa a tèse il denaro ti vien dalla piazza oppuredalla zeccaquando il suo tìtolo è pari? ¿che ti fà se il volume sia giàtagliato od intonsoquandoper lèggerlodovrài tagliarlo egualmente? Anzicome reliquiachepiù baciatapiù impregiacome cambiale chequanto hapiù firmeha più crèditotale una fèmmina. Eanche noisiamo belleragazzenè più nè meno delle altreanziil nostroè il mestier dellebelle; e siamo sane e giojose. Oh vedessi che piatti-e-che-scoppi... di riso!¡quale coscienza! ¡qual stòmaco!... E quanto poi al «pulite»abbiamo latromba sul pianeròttoloe si consumala parte nostradi sapone di Como. «Manon oneste» tu dici. ¿E le altre? ¿oneste fino a qual somma?

Contuttociòsia. Chiamiamo pure l'amore di quelle quattroimmacolatellefuoco di quercia; fuoco il nostro di gelso. ¿Forsechè il gelsonon scalda? Chiamiàmoloil loro«manzo»; il nostromodestamente«giovenca»: ¿non vanno entrambi a finire nel medèsimo cesso? Ci si pagaèvero¿ma e che non si paga sul gran mercato del mondo? Colèiche rifiutascandolezzata un marengoaccetterà sorridendo un giojellose anche vàlganeil triplo; mentre il donarsi di un'altra salderà le partite di un tuo debitoreil marito. Torna insomma in quattrini il nonnulla dei dolcidei fiorideiprêsti gentilie del resto; t'accorgerài quanto convenga quel gràtis.Noigeneroseti domandiamo uno scudo; le altreun anello. ¿Sai tuveramentesìmile anelloche costi?

Oh che si gòdano in casa la lor compassione insultantequeste tue mezze pulcelle dalla irremovìbile gonnavera campana del vuoto!¡queste tue pregne di purità lussuriosachefacendo l'amore con pitocherìae or lusingàndoti con i sorrisior con le ingiurieti tèngono anni intentìgine e ti sbilànciano prima di cominciare; per poiquando vorresticavàrtelachiùderti seco in un inferno di paradisodonde non trovi piùuscita! oh che non tèntino di soppiantarci quelle pompose tue dameseveresoltanto con chi non le pregapudiche con chi lor non aggradale qualiinzuppando di làgrime i fazzoletti sui tristi casi della Stefania Gentili osulla morte del merlofan disperare e lo sposo e gli amantiasciùgano questiaffàmano quelloe ti contòrnano di un campionario di corni sotto forma dibimbi! Guarda invece quà dentro. Ecco bocche che vògliono solo mangiarenonmòrdere. Da noi la schietta natura senza sorprese nè sottintesi; da noiVènere còmoda e fàcilenessuna paura di un imminente maritoopeggioancordi una moglie; da noi solamenteil piacereche ha sede nell'incostanza.¡Porta a tè se non ti amiamo dal cuore! Nè quel che mangi ti amae tu nepigli assài gusto. Ma noi intanto abbiam salvo moltìssimi innamoratidevoti apròssima fine; e spesso le nostre labbra riunìrono il bacio de' più fierinemici; mentre l'ingegnoper noisbarazzato dalla mortale zavorraspinse ilvolo più in altoe siedette la plebe sur il trono dei rè. Oh davvero il grancasoin tante celle di mieleuna puntura di ape! ¡Viva Francia! ¡evviva illièvito dell'intelletto!

¡Eppuretu non ti muovi! Si direbbe perfino che lì ti staiimpigliato in qualche sterpo di quel grand'albero morto ma non ancora abbattutoche chiàmano «religione»; si direbbe che ti minaccia all'orecchio ilbrontolìo di quèi biliosi predicatori pei quali Adone più non risorge. ¡Ve'l'ingrata genìa!... Foss'anche vero quanto abbàjano essiche quì si comprala perdizione¿di'non è forse la nostra che fa prosperare la loro bottega?- ¿dove n'andrebbesenza peccatola penitenza? ¿che lor frutterebbe quaresmaimpreceduta da carnovale? Senonchècredi a mèci calùnniano. I nostriantichi diuccicome gli altri più grossili battezzammo anche noi e daldisotto la foglia ci protèggono sempre; nè il lampadino delle nostre Madonneha mai patito la sete. Làsciali dunquequelli arrabbiatilatrare alle loroplatèe di scranne di paglia ed alle adulatrici navate; lasciachecon il fumodi un servizièvole infernoaccechino i goffispremendo loro dagli occhiargentino dolore. ¡Gelosìa dell'impotenza! ¡animosità di mestiere! Chèaesorcizzare il demonio che nel sangue ti avvampaci vuol ben altro (e lo sanno)di qualche sprùzzolo d'aqua e di un po' di latino. Entra invece da noimoccoluccio di sagrestìa. Il tuo diavoletto ci spirerà tra le braccia disoavìssima morte.

¡Eppòi! ¿ami davvero la Patria? sostieni allora il piùpopolare de' suòi istituti. L'annalista ti dice che fare la storia del lupanareè un farla all'umanitàe il filòsofoche tutto è prostituzione più o menodissimulatamentre il giurista ti accertacol jus laxandi còxas chenoi guadagniamoal pari d'ogni altraun onestìssimo pane; e il polìticochela tutela della pùbblica moralità siamo noinoi lo smaltitojo delle passionie il pozzo donde si attinge la castità. Attìngivi dunque anche tu. ¡Stoltochi muor di sete al fiume in riva! Attingidove i tuòi padrigli amiciicompatriotiil rè stesso (questo tuo nome nei fasti della nazione) vèngonocolle secchie. E se ciò non ti bastama esigi altre prove di nobiltàèccotiin noi (¡giù quel cappello!) una «privativa regia»come il tabaccol'azzardol'eccidio e altrettali virtù. Chèvirtù non essendonè tantiuòmini illustri ci avrèbber difese e godutenè tante dame imitatenè cisarebbe governo sì compiacente da tollerarci; ¿che dico? di arruolarci eglistessofacendo a mezzo del lucro. ¿Credi tuche si possa puntellar con ilvizio la vacillante virtùche è come diremèttere a guardia della pècorail lupo? ¿credi tu che uno Stato abbia licenza di patentare l'immoralitàd'autorizzarla con un tributodi pigliar quindi interesse al di lei prosperare?Oh non pensarlo nemmenoe se lo pensitaci. Chi ti protende la cava mano è lacenciosa Finanza. Quà la borsa e la vita. È dovere di patriota.

¿Ma che? il giovinettomordèndosi il labbro e rintascandoil borselloabbandona la insidiosa portina. ¡Scaccomatto a Berlicche! unamaterna preghiera è arrivata al Signore.

«¡Birbe!» mòrmora eglilungi scagliando ciò chebrillàvagli in mano. E la monetacadendodà un suono di corso forzoso...volevo dire di falso.

¡Pòvera madre! l'ardentìssima prece non avèa in cielotrovato più Dio.

 

 

SCENA SESTA

 

Una donna che ama.

 

Il viso di Nino Fiore era in piena illuminazione. Ne' suoiocchi ridenti si raddoppiava la stella di gasseche nell'alto brillava; sullerosse sue guancesulla punta del nasonell'eburneo sorriso dei dentidardeggiàvano i lampi degli argentati e dei vetriond'era sparsa la tàvolabenchè il vero olio a tutta questa illuminazione gliel avesse fornito piuttostouna fila di nere bottigliecinque come i birillie a bocca aperta come icadàveri. «¡O amico!» egli esclamòporgèndomi di sopra la tàvolaambedùe le manicalde di onestà e di Barolo«è il primo pranzoin unannoche m'abbia fatto buon sangue. Mi par tornareti giurodalla Brianza.»

¿Eccome no? Non era lì a funestarlo con la velenosa suaombra quel manzanillo ambulante di Gea. Perocchè Ninofruga e rifrugadopoquattro amorose che non lo amàvano nientene avèaper sua maggioredisgraziatrovato una quinta innamoratìssima. Una Geadicogentile come ilginepro e i ricci delle castagnela qualegelosa perfin degli amori ch'egligià avèa obliatisforzàvagli le serrature dello scrittojo e glidissuggellava le lètterelo spiava alla rima degli usci e lo braccavatravestita in istrada; una Geacherotolata qual pomo della discordia tra isuòi amici e luinon perchè la volèssero tuttima perchè ella non volèanessunogli proibivafuoril'altrùi compagnìatoglièvagli in casa lapropriacircondàvalo insomma di quella permanente ostilità in cui ogni donnafedele non manca di tenere il suo uomo. Nè crediate che l'uomo facesse quìalmeno le mostre di èssere tale. Egli si contentavaagli assalti della linguadi leidi serrarsi le porte della cittadella del capole rasciugavaquandopotevale làgrime con qualche taglio di vesteerispetto agli sgrafficiprovvedeva con del taffetà. Poi dicèa agli amicitanto per iscusarsi «nonnegoella ha difettacci... mase non altroio posso infine gloriarmi che unadonna mi ama. Ciòper mènon è poco. Edel restovuòi l'abitùdinelaquale m'ha fatto di Gea un indispensàbile incòmodovuòi la ragione deidèbiti così-detti d'onoreche òbbligano appunto per la mancanza dell'òbbligo...»«Spòsala allora del tutto» interrompevamo noi«e lìberatene.»

Comunque; pare che Nino avrebbe anche potuto far senza pertutta la vita di un sìmile bastoper quanto imbottito d'amorese il solodeporlo qualch'oragli dava tanta allegrìa. E davveroquella marinata discuola gli avèa rifatto l'umore. Nino dimenticava il morello de' pizzicotti esi sentiva rimessi i tacchi nella sua stimaquantunque vantasse ciò amezzavoce e fra due tìmide occhiate.

Io intanto gli riempìi il bicchiere. Die' il vino unrisettuccio modestopoi tornò serio; di quel serioperaltroch'è f'atto digioconditànon di broncio.

«Oh come stò bene!» ripetè Nino con un sospiro disoddisfacimentobrindeggiàndomi insieme dagli occhi e dal càlice.«¡Vèngano ora tutte le Gee del mondo...! ¡Le sfido!»

¡Non l'avessi mai detto! Nel largo spiazzo dell'osterìadove noi sedevamosi udì il ruotolìo di una carrozza a gran corsa. Ahimè!Pace non venne mai così in fretta.

Ed ecco aprirsi con violenza lo sportello del brougham.Il viso di Nino ridiventò opaco; la mano di lui ridepose il bicchiere.

Era lei. Stralunataspettinatacol cappellino che le cadevada un lato e lo scialle dall'altronon la mostrava da capo a piedinella suaalta figura arsa di rabbiaun indizio che amore vi avessenon dico già presostanzama fatto mai sosta. Per mèanche a servale avrèi risposto un belno.

«Ahècchetebrutto porco!» ella gridòcorrendo a noi eindicando con il ventaglio il mio pòvero amicoche invano cercava dirannicchiare la confusione dietro una lunga bottiglia di Renocome la gru dellafàvola; «¿è cquesto l'affare de promura? ¿è cquesta l'oretta e po' so' deritorno?» e dindonava la testa. «Ahtu credevi de falla alla Gea? ¿descirpaije li sordi e annàtene 'n punta de piedesenza ch'er core me facessi laspia? ¡Ppe santa Pizzuteta! ¡T'ensegnarò io a stane allegro ffora de ccasa!»

Nino fe'a leiun supplichèvole gesto che domandavaperdonoe un altro a mè che domandava soccorso; per cui: «Se c'è colpaosignora» intervenni«è mia tutta. Chi l'ha invitato sono io...»

«¿Vvoi? ¿chi ssete vvoi? ¿forzi quarcuno de quellisciampagnoni amichi sui che lo pòrtono via da lavoràe je fanno sfruscià lisartarelli in scarrozzate e bottijecome ssi llui fussi un Roscirde? ¡erpòvero paino!... ¿Invitàdite vvoi?... ¡Accidenti alli vostri inviti!» eagguantatodi colpodue capi della tovagliastrappò giù tuttoe vetri eterraglieaggiungendo superbamente«so' rromana de Rromaio!»

«¡Non fate scàndali!» esclamàirattenendose nonaltrola tàvola.

«¡Li scànnoli li ffate vvoi!» ripetè l'infuriata. «¡Mefurmini Ddio ssi tutt 'sta roba nu' annava a finì in quarche ventraccia dacquattro bajocchi!... ¡Badate be'! buggiaroniche ssi ciò la coronaciòanche er cortello.»

«Oh tacete!» feci.

«¿Tacene io? er siggnor Iddìo 'un cià ddata la lingua pe'stà zitti. Voijo parlàstrillàfinche ce perdo er fiatovoijo che tutto ermonno conoschi cquante profidie ha ignottite 'sta ciurcinata da cquer traditoregiudìo... Sìdico a tèsor Nino Fioreche scrivi la llitteratura; a tèche ddopo d'avemme fatto pperde una profossione» (¿che professione? pensài)«in dove ce sarèi arriuscita una siconna Maribranneperchè ciavèo una vosce...'un fò pe' dì... una vosce»e strillava da seggiolaja«de sirafino; e ddopod'avemme arruvinata e fatto lassà i più bell'òmmini sposarecci de Rromaassai meijo spalluti e cquadrinosi de tècome discèa la bonànima de mimadre¡ecco cquane! me butti ner monezzarome butticome li cocci d'unorinale. ¡E managgia ssan Mucchione 'un ciò mai messo nienteione licapelli a' sto vassallo cane. Lo dichi lluisi j'avanza un po' de vverità incquer coraccio suo... ¡Parlainfame! ¿'un sso sempre stata una donna onorataio?»

Nino alzò gli occhi verso la stella del gassecome a dire:¡pur troppo!

«Ebbèin compenzo...» e lì parèa che la voce di Gea siavvicinasse ai confini del tènero ed anche dell'ùmido; quandomutato tuono dibotto «¡Sumascarzone!» sclamòafferrando per un braccio il mio amico.«¡Alòmonta in botte!» etiràndoselo dietrochè il vino di lui s'eravôlto in tant'aquacacciollo nella carrozza e gli siedette alle coste.

Partìrono a precipizio.

Quanto a mèrimanevo intontito come chi uscisse da unabatterìa di cannoni in salva o da un gioco di campane in volata. Senonchèun'altra notameno sonora ma non men disgustosavenne a ridarmi a' miei cinquesensi - una notache un cameriere mi offriva sul più bel piatto dell'osterìa(e intanto e' sorridevail furfante)scritta fittìssimama più da vetrajoche da ostee in cuisull'imo della prima facciatavedèvasicalligraficamente un «di graziavolti.»

Voltài.

Ci lìberi Iddìo da una fèmmina nostra - ed anche da una...altrùi.

 

 

SCENA SÈTTIMA

 

Il testamento del signor zio.

 

Èccoci in uno di quelli antri di stregone incivilito dalsentor misto d'inchiostrotopo morto e tabaccodove si pèrpetrano spessoconogni formalità voluta dalla leggeatti che sono reatio in altre paroleimpunemente si uccide perchè le armi son di misura. Trè calotte con fiocco econ testatrè pennetutt'e trè d'ocadòndolano e strìdono a un lungoscrittojo di cui sònosi fatta parte accessoriamettendo in bella le birberìedel principale. E allorchè i becchi delle trè penne picchièttanocontemporaneamente nei loro negri abbeveratòisei occhiettucci danno unosguardo di maliziosa miopìa a un personaggioche dal far meno di essi ci sipalesa per qualche cosa di piùil qualedinanzi a uno specchio che gliritorna una faccia imbellettata dove impiàntasi un naso che sembra affetto dasatirìasi e fà contorno un nastro di barba dai riflessi dell'arcobalenoorasi accòmoda un mazzo di rose allo sparato del gilèora con un pettininochiama i capelli della nuca in soccorso della sincipitale calviziee sipavoneggia e molleggia sulle sue scarpe cricchiantifacendo spiccato contrastoa quell'altro uomo (o a meglio dire scorcio di uomo) dal viso giallo e grinzutoe dalli scarsi baffucci da nessuno unto ingrassatiche noi vediamo seduto in unàngolo dello studiotìmido nella miseriabenchè alla dolentìssima aria edall'àbito nero si direbbe un erede.

Ma un eredeforsenon è. Il suo interno coloreassomìgliasi troppo all'esterno. Inutilmente egli si và ripetendo di èssereil solo nipote di quel monsignore Speranzidel quale si leggerà iltestamentoi suòi capelli non ne divèntano meno grigi. Gnogno rinuncerebbe adieci anni per avere già udito il cric dei cinque neri sigilli del largopiegoche - latente delitto - biancheggia sul verde tappeto del tàvolonotarilee per trovarsi di là della temuta lettura e correre a casa e còrrerd'un fiato sino al quinto suo pianogridando alla trèpida moglie che viènegliincontro con un bimbo sparuto «possiamo dargli dei fratellini.» Ma se lasperanza saliva lentissimamentequal colma secchianel cuore di luigiuntaall'orlosfuggìvagli e ritonfava precipitosa. Egli guardava il suo àbitochequantunque la mamma gli avesseun tempocucito il più possìbile angustoglisi facèa di giorno in giorno più còmodo; àbitològoro dal diserrarsigomitoni la stradache parèa volesse tornare in matassa e rammentàvaglicontinuamente «io non vesto ragioni»; ei si guardava le scarpeùnica parteche in lui sorridessescarpe alle quali si sarèbber potuto tagliare le unghiee cui serviva da ciabattino l'inchiostroe la pietà ch'ei di sè stessoprovavasembràvagliquasipietà dello zio; ma sì tosto il pensiero chetale zioin vitanon gli era mai stato clemente nemmeno di una agugliata difilo per rattopparsisoffocava in bocciuolo l'allarga-polmone sospiro e gliriempiva col sangue delle ferite dell'ànima le mille righe del viso. Eppureper quanto cupa una vitarado è che non abbia due luminosi momenticomeappunto succede nel matrimoniocioè l'entrata e l'uscita. Era difattiincredìbileche un sacerdote morente potesse rammentare con astio qualcunofosse pure un nipote. Gnogno ne era il solo continuatore del nome e dellesembianze; di piùera pòverocàrico di famiglia... e la secchia dellasperanza rigalleggiàvagli in cuore. Ma e allora¿perchè lo zio non avèalomaiquand'anche non ajutato a portare la soma della miseriaalmeno incuoratocon qualche «arrì» di promessa? ¡O pretetroppo servo di Dio per avanzartimai tempo di servire agli uòminial tuo funerale non lagrimàvano che lecandele! E invanoil nipotecercava di rattenere la fuggèvole spemeinvocando il ricordo dell'ora suprema del suo pòvero babboquando il canònicosi era seduto la prima voltaal fraterno giaciglioed era parso commosso. ¡Inveritàuna bella commozione! chèintantola vèdova madre di Gnogno avèadovuto impegnare gli ùltimi ori al cognatoperchè costùi sepelisse ilfratello per carità; mentre poi la sua giòvane mogliealla quale lo ziomostrava sul primo una spece di benevolenzadàndole spesso della biancherìa...a stiraredichiarava al marito che in casa di monsignoresolanon avrebbemesso più piede. Nè il terrìbile zio era uomo da perdonare a chi egli avesseoltraggiato. ¡Parentelaamiciziapietà! vacui nomi: tutto cadeva dinanzi alsuo Dioal suo ventre e ad una servaccia formicolante di vènere guastasboccata come un boccal di tavernasola persona ch'egli potesse soffrireperchè da tutti abborrita.

Ma ecco... uno scampanellìo improvviso.

Il dottore Tobìa Migliacca precìpita all'uscio e scompare.Tanta la pressacherasentando il nipote Speranzilo ha urtato nè gli hachiesto perdono.

E la porta si riapre. I trè pagnottisti si àlzanola pennad'oca all'orecchioi pugni allo scrittojoinchinàndosi rispettosi. EntraInnocentina Succhiala servaappoggiata sdolcinatamente al braccio del galantenotajotutta piume e bindellitutta puzze e coloriin una toletta che avrebbespaventato una vaccacon li orecchini della mamma di Gnogno e una miniatura delmorto sul pettoequel ch'è peggiouna grinta di oltraggioso trionfo.Giammài la malvagità era apparsa con una più sincera espressione.

Parèa peraltro che dalla faccia di lei il dottore Migliaccaforse perchè abituato alla proprianon risentisse troppo disgusto. Il rùvidosacco non fà i marenghi men mòrbidi. Il notajo condusse elegantemente la servaa un poltrononedov'ella si accomodòdistendèndosi intorno le ampie balzanee insinuolle sotto le piote lo sgabelletto e le offerse il mazzo di rosedicendo «bellìssima e preziosìssima padrona mia... Donna Innocenza...»

Al chelusingatala serva cercò di produrre il suo piùgrazioso sorrisomacome la immonda bocca le si contrasse oltre il decentedovette affrettarsi a dissimularne la oscèdineapplicàndovi il mànico delsuo ombrellino scolpito a testa di pàssero.

¡Pòvero Gnogno! Dio faccia ch'io sbagli - ma il tuo àbitolìso t'ha a rimanere - ¡chissà ancora per quanto! - l'àbito della domènica.

 

 

SCENA OTTAVA

 

Tana di lupa.

 

Quella nottei finestroni ogivali della torre maestra diRocca Adelardi splendèvano. L'attardato villanoche vi passava rasente collapaura alla strozzabatteva via lestofacèndosi il segno di croce.

Chèsulla torre e i suòi lumi giràvano le dicerìe piùturchine. Anzituttola apparteneva alla duchessa di Stabiaquell'Eldache conun altro cognome ma colla stessa mortezza di viso e li stessi occhi grigìssimie morsicanti e le tùmide labbra e il seno profondoabbiamo incontrato piùvolte. Anche la moneta di lei avèa potuto trovare chi dàvale il conio percòrrere liberamentenè a ciò avèa concorso una zecca ma dueperchè lanostra fanciullamaritàtasi già per isvistacome sappiamoa un fiore diuomo e di pòverose n'era tostocon una querela di solenne impotenzasbrigataper dar l'ùltimo crollo ad un vecchiocârco di colpe e milioni eper rimanere di questiin un medèsimo temposposavèdovaerede. Fu alloracome lo scoppio di una polveriera. Sfolgorante di gioventù e di bellezzaconun diàvolo di lussuria per capellocol patrocinio di un nome illustrìssimo euna ricchezza che ogni virtù poteva comprare e scusare ogni vizioEldasfondato il cerchio di carta dei pregiudizisi credè tutto permesso. Nè ellaera di quelle delicatine che intrattèngono amanticome l'analfabeta terrebbebibliotecheper pura ostentazioneo di quell'altreche pur leggèndonequalche pàginafanno ciò con riguardi e col batticuoretìmide sfacciatelledai baci a mezza bocca e dagli abbracci floscie neanche di quelle che si fanstrapregare per quanto hanno ùzzoloo pìgliano sempre non dando maiovògliono (che è peggio ancora) passare per peccatrici senz'èsserlo. Eldainvece lo era franchissimamentein piena buona fedenella maggiore estensionedel tèrmine. Tenèa fame di uomocome altri di cibo. Al solo odore di maschioentrava in furore come una gatta ai profumi. Aborrìa qualunque rettòricalungherìaqualunque circonlocuzione pudicaqualunque vergognaeccetto quelladi castità; diciàmolo anzièrale odioso una sola spece di amorel'amorsenza scàndalo. Chi non mi credes'informi. Ci ha pochi di mia conoscenza chenon le àbbiano datoalmeno una voltadel tùtanto che Eldanarrando idensi amori di leidicèa: «la tale universitàil reggimento talaltro.»Unoche avesse varcato le soglie della sua casadovèa èssere a tuttodisposto. O si fosse sgrossati con il falcetto o raffinati col temperino; sifosse o marci come selvàtici o acerbi quài cetrioliella dava a chiunqueospitalità e da tutte le parti. Preferivaperaltrola cipolla al tartufo;cioè le garbava l'amore che odorasse un pochetto di lavandino o di stalla; eperò i suòi domèstici èrano gente atticciatadal collo toroso e dallespalle quadre; non personestature; che ella solo ingaggiava - nuova Marulla -dopo di averli ben soppesati; poise la nottenel riveder la coscienzala sitrovavacon istuporecolpèvole di nessuna colpaeincominciata ainquietarsi della anormale sua castità (poichè Naturadisse la fìsicaanticaabhòrret a vacuo) finiva col spaventàrsene e accendèvasele ilsangue - mandava tosto in scuderìa o in cucina pel primo che capitasse olavapiatti o scozzonesalvo a cacciarlolì sui due piedidal tàlamo e dipalazzose il pòvero stipendiato vicemaritonel contentarladimenticava dichiamarla «eccellenza.» - Delle sue pazzedelle sue cupe avventure neribòccan le terre. Eldacome la lupa di Ezechìel divaricàvit tìbias suassub omni àrbore. E noi udimmo di bagni di vino del Reno in cui s'immergevain presenza dell'amoroso suo esèrcito e di pose a modellanuda su neri liniin mezzo a un cerchio di artisti moltiplicanti nelle tele e nei marmi lefrìniche forme e la lascivia di lei; e udimmo di quandointrodòttasi neglialberghi qual cameriera per le nuove sposinene corrompeva i maritio in pannimaschili (che le si facèvano stupendamente) scalavanell'ora in cui lapolizìa dorme e i ladri son svêglile finestruole e la santità deiseminaristi o sforzava i bordellidove la notte primasotto un nome lupariovi avèa allargato le ingorde cosciespadaccinando colle pattuglie oschiaffeggiando e uccidendo in duello chi osava mancarle mai di rispetto colrispettarla; udimmo infine di idilli sulle montagnealternante adulteri fra ipastori e il lor greggee di orge in riva ad un lagonelle quali sibaccheggiava in cristalline oscenità e si tentavafin col sapore dei cibi (infogge da disgraziarne Giulio Romano e Pietro Aretino) che anche il palatopartecipasse ai peccati degli occhiorge che finìvano poi in un manìacotumultoscagliàndosi tutto dalle terrazze nel lagoe vasellame ed arredisenza che la principesca prodigalità del conte di Angera fosse quì accolta esalvata dalle reti sparagne del Borromèo mercante. Ma un ducale armellino puòcelare ogni infamia; ma la medèsima perversità è spessoin una gran damalaprincipale attrattiva; ma la canaglia in frustagnoammessa a visitare le saleinsudiciate dalla canaglia in vellutoallo Champagne riveduto suglioriall'infranto Muranoal lacerato Arrascolta da meravigliatacitamente adorava.

Senonchètratto trattonel bujo della libìdine di Eldas'intrometteva qualche lampo di amore. Èranoquestiripiani dov'ellariagglomerava le forze a salire. ¡Guài allora a colùi sul quale il suo occhioavesse imperioso insistitomentre il pallore di lei facèvasi cadavèrico e laespressione più ancor sinistra del sòlito! Per quell'infelice non era piùscampo. Elda non conosceva barriere. Pur si trattasse di scompigliare la pace dicento famigliedi rovinarleannientarleella correva a colùilo circondavae avvolgèa ne' lussureggianti suòi fianchinelle sue spire da serpentessanell'assorbente suo àlitofinchèabbacinatoubbriacoil coniglioprecipitàvale in bocca. E fra le sue molte passionicìtano quella per unacelebrità della golaper un Gennaro Stornelli detto «il divino usignuolo»la cui voluttuosìssima voce invadeva le ànime e al quale Elda avèadalproprio palchettogettato entusiasta le rose e i giojelli del capoibraccialettiil ventaglioil borselloe dietro le quintesè stessa. Per suasventuraGennaro le resisteva. ¡Aquavite sul fuoco! ¡carne salata allasete!... Elda non gli diede più tregua; lo inseguì supplicante con la spadasguainataperseguitollo della incessabile smania fin nelle Amèrichesicangiò da duchessa in coristariuscì a scritturarsi con luia cantare conluia farsiabbracciàndolo scandalosamente in pieno teatrocacciare seco daipalchi. Il tenore fu vinto. La duchessa non lo abbandonò piùlo rimorchiòtrionfante in Europasi dedicò tutta - ella cui fino il pasto affamavanèdieci Pròcoli imperatori avrèbber saziata - al di lui ùnico amore. ¡Odeprecàbile fedeltà! ¡o malaugurata fortuna! ¡o vulvea rabbia! ¡ocantàridi! Ei ben presto cadevasenza voce e midollefra le incontentàbilibraccia.

Qual piantoquale disperazione accompagnasse la fineimmatura del «divino usignuolo» è più fàcile a dire che a crèdersi. Lamorte in Grecia di Adone fu a paragone una festa. Elda coniò il suo furiosodolore in ogni metallolo scolpìlo stampòlo dipinse; lo affisse su tuttii murilo trascinò per tutte le vie della cittàfra l'àrder fumoso dei cerie l'imperversare delle campanefra il pèndere a bruno delle bandiere e iltuonar del cannonerullando cupi i tamburistridendo le trombe e miagolando levèrgini - in un funerale lungo parecchie migliadi cui prima parte era leiasiaticamente sdrajata nel suo carrozzone di pompain gran toletta di luttoecon al fianco un cicisbèo di consolazionenegro.

Edopo due dì dal mortoriocosì contàvano i vìllici diRocca Adelardiera venuta alla Rocca una squadra di apparatori con candelabried addobbi e tanta gramaglia da tappezzarneentro e fuorila chiesa dellaparrocchia. Le vuote occhiaje della torre maestra avèano allora riavuto le loropupille di vetro. Edi lì una settimanauna notteappariva un'ampia berlinaa quattro neri cavalli coi postiglioni abbrunatidonde scendèa Sua Eccellenzadi Stabia insieme a una bara e a un certo uomo grigio pien di misterocui ilsignor farmacista si ricordava di avere altre volte fornita la stoppa daimbalsamare il mastino del feld-maresciallo Radetsky.

D'allora a noicinque anni. E tutti e cinquea dì 10 diottobreanniversario del luttola duchessa di Stabia ricompariva alla Roccaacavalloal galoppospaventando di mezzo la strada ànitre e bimbi - tra iriverenti cappelli e gli occhi sbircianti paurosi l'annuvolato suo volto -seguita a non breve distanza da un sempre nuovo staffierema sempre (osservàvanole forosette) bene condizionato.

Quella nottei finestroni ogivali della torre maestra s'illuminàvano.

E la mattina seguenteElda sedeva a far colazione facciafaccia collo staffiereche il giorno prima l'avèa servita rispettosamente apranzo. La duchessa parèa già consolata. Brillàvale fornicazione lo sguardoe sghignazzando della capreggiante sua voceversava con mano incitatrice dabere al commensale di lei. Ma il commensale tremava nel porsi alle labbra ilbicchiere. Due lìvidi segni di accusa gli sottolineàvano gli occhi.

 

 

SCENA NONA

 

Al veglione.

 

Dirèi «è l'època delle màschere» maciò potendosignificar tutto l'annodico piuttosto «è l'època in cui le maschere càdono.»

Nel così-detto tempio dell'Artedove echeggiàrono appenale melodìe di Rossini e Bellininòbile cibo d'amoresi terranno 'stanottegli Stati Generali di tutte le alte e basse puttane della città. «La è larisorsa della pòvera impresa» dicono i calvi abbonati nell'indossar la marsinae intascando un pajo di guanti da un dito. E veramentela bottega del Diàvoloha sempre fatto più affari di quella di Dio. Chi non mi credeentri. Entrateanche voi dalle belle ideone sulla maschile generosità e sulla femminilgentilezzatutte idèe che figùran sì bene nella nìtida stampa di unaraccolta di versi. Basta un veglione a restituire il criteriosmarrito in unanno di studio.

Entrate. Non vi ributtise assuefatti agli ambienti senzarisparmio delle montagne e dei laghiquest'aria pregna di pòlvere e odorantela buccia d'aranciol'ammonìaca e il gas; questo tanfo di letamajo rimuginato.Senza colore or si suona una polca e poche coppie giritondèggiano fiaccamentequasi ballàssero a nolo. La maggior parte - maschi che in nera assisa da ballosi piglierèbbero per camerieri se avèssero un viso un po' più da signore; ofèmmine con quel tanto di copertura che è sufficiente a tenere in crèdito ilnudo - passèggiano di su e di giùgareggiando di scipitezzain un prolungatosbadiglioin un'agonìa a suono di banda. E le dame nei palchigelate lespalle pel vicino maritogià sospìran dicendo: «è un veglione che non sifà.»

Non disperiamo però. La pistola della follìa si stàcaricando: l'orgia è nel perìodo d'assorbimento. Per molti la cena è ancordubbiae chi conosce la pesca sà che l'amo e le reti si gèttano in silenzio.

Approfittiamo piuttosto del momento di calma per sondar lenostre aque. Teniamo dietroad esempioa quel grosso fattore dalla facciavinosa ed alloccasceso appena in città coll'ùltimo sacco di granoil qualeprocede trionfante a braccetto di due mascherine alla dèbardeurl'unain azzurro e l'altra in scarlatto. In questei caratterìstici segni di tutte.Ambedùepalle di gommache bàlzano di pugno in pugno; venditriciambedùedi merce che rimane lor sempre. Ma se la prima è di quelle che mai non pèrdonla testa per farla pèrdere completamente altrùila seconda è dell'altre cheincomìnciano a pèrderla loro. Nell'una il peccato è càlcolonell'altranatura. Quella in azzurrola Scianadalla voce mielosa e dalla pupillamonacalmente sornionaguarda prima il denaropoi la mano che l'offrebilancial'oro e la carnemettendo prezzo perfino alla concessione pudica del bacio eaggio al silenzioe succhia come un sifone fino all'ùltima stillae nel«sommo di Afròdite» può sempre distìnguerese la camicia dell'avventore èdi olandetta o battistanè mancaquando ciò valga la penadi scompagnarglii bottoni; l'altra inveceche è detta la Firiselladagli occhi pazzi everdògnoli e dalla voce aspreggianteper il più bello lascia spesso il piùricconon conta i bacidà più di quanto le è cêrcoese dopo imborsellanon domanda mai primaanzi talvoltavenuta per la mercedese la scordò. Conl'una insomma non si fanno che affaricon l'altra si può far anche all'amore;purse la prima consentirebbebasta ci guadagnasseperfino a durarti fedelenon potrebbe ciò l'altra a niun patto. E inoltrela Firisella hagenerato alla fame nuovi èsserimentre la Sciana li ha tacitamentesoppressi; con la natural conclusioneche se a quella il peccato stàaccelerando l'ospedale o la càrcereal contrario la Scianaconvertendomanmano questo peccato in tanta rèndita pubblicasi mette in disparte - amaggior gloria della giustizia divina - un còmodo ravvedimento inaffiato a Bordeauxe nutrito a fagiani.

Ingiuriàtemi pureteòlogi; la Verità mi difende. Quantoimporta alla beatitùdine provvisoria del buon campagnuoloè ch'ei non scernenelle due donne se non le polpe e i sorrisie quanto importa alla loroè ches'avvìano a cena.

E lìil teatro a poco a poco si sfolla e il lampadariorimane a illuminare sè stesso.

 

Ma la cena è scroccata. La variopinta turba rinsàccasifracassosamente nell'amplìssima sala. Si rinfòllano i palchi e stuona la bandacon più accanimento di prima. Fùrono a eccitar l'appetito con cibi che lofarèbber fuggirese fosse; fùrono a conquistar l'allegrìamercè unabevandache dello Champagne non possiede che il prezzo. Il teatro sembraun ardente colossale punch. Sparge a nembi Cupido le avvelenate suefrecce e il pòlline aleggia della tisi e del tifo. Vedi donne seminude ebriache dar la scalata ai palchettigridando da ossesse; vedi gruppi di genteo piuttosto di otri di vinosaltacchiare ad urtonicredendo forse ballareillusi di divertirsi. «La festa si mette bene» sorrìdon dai palchi le dame ecarèzzan con l'occhio gli scàndali della platèa; poiesclamando «¡cheporcherìa!» con una smorfia di compiacenza adoràbilescompàiono a riparareil pudore tra le adùltere ombre dei camerini. ¡O spezialipestatespalmatemescete! ¡Fondetearmajoliaffilate!

Non si òdono più se non grida. Ùrlasiquasi il teatrobruciasse. Maquantunque di spìrito se ne sia molto ingojatonon ne brillauna goccia.

Ed ecco una donnamezzo svestita in scarlattopiantarsi sulparapetto di un palco nella linea ondeggiante di Hògarthe protendendo la manoalla follacon una voce che tutte sorpassa strillare: «¡onorèvoli!»

Un fischio universale. Il pùbblico non vuol saperne dionore. E allora:

«Tutti vigliacchi!» sbràita il dèbardeurcorreggèndosi; e fà l'atto ribaldo che immortalò la Spartana.

«¡Viva la Firisella!» applàude la folla.

E il tumulto si eleva. Chi ha la testa un po' a casave laconduca del tutto. È doppia pazzìacredetestarsi da savio fra i pazzi. Ache ci val la giusta oradove quella di tutti è sbagliata?

Nè c'è più lingua che obedisca a cocchiere. L'allegrìa sifà litigiosa. Uno se la piglia con l'altro del malèssere proprio; scàmbiansiingiurie e indirizzisuonano schiaffi e copponi. Senonchè l'uvagià premutadal piedevèndicasene sottraèndolo. Vinti e vincentiquesturini e briffaldetòmbolano a catafascio e una volta sul suolo divèntano suolo; quanto ancorpòssono fannocioè s'addormèntano. E allora le oneste signore de' palchicui nulla più avanza a vedereriavvòlgonsi nei loro sciallidicendo: «fu ilmiglior dei veglioni.»

¿Ma e chi maidi tutti coloro che uscìvano dal teatropieni di pellicce e di luesi accorsesotto l'atrìo di stradadi unacenciosa tosetta con un bàmbolo in braccio e un ragazzino per manobubbolantipel freddo e frignanti per fame? - ¿e chi maise si accorsenon rispose uninsulto alla pòvera bimbache singhiozzando chiedèa: «c'è la mia mamma làdentro? Mia mamma è la Firisella

 

 

SCENA DÈCIMA

 

In monastero.

 

«Tòllite jùgum mèum sùper vos et inveniètisrèquiem animàbus vèstris; jùgum ènim mèum suave est et ònus mèumleve... Queste sono le dolci parole colle quali Gesùredentore emaestrochiama ed invita le ànime tutte a quel riposoa quella paceche nonpuò dare la lusinghièvol miseria del mondo...»

Ed ecco un gran coro dal cupo intavolato di querciascultobaroccamente a frutta e a puttinicol suo leggìo nel mezzo dell'aperto messalea miniature e pendaglie in ogni stallo la sua monacuccia in sòggolo esalterioimmota e compuntasul malincònico pallor della quale trèmola atratti l'illuminello del solefàttosi violaceo o aranciato nelle vetrerieistoriate; ed eccoal posto d'onoreSua Beatitùdine la badessadal rubicondofaccione e dalle socchiuse palpebre vèdove di sopracigliaaffondata nellapropria pinguèdine e nei purpurei cuscini di un seggiolone che a pena la capeambo le mani sui due pomati bracciuoliin dito il topaziola croce d'oro sulpettoe rittaal fianco di leila verga abaziale dall'uncino in semenza.Attraverso il rameggio dell'inferriataposta fra il coro e l'altarebalùccicaintantonel chiarore de' ceri e ne' riflessi de' papi d'argentol'àureateletta e la mitra gemmata del Patriarca che ufficia. Sua Eminenza intuona infalsettoil «Veni Creàtor» cui le voci flautate e oscillanti dellesorelle rispòndono il «mèntes tuòrum» facendo loro bordone dallachiesa anteriore la poderosa profonda gola dei frati. A nubientra l'incensonel coro; l'òrgano muggerombae completa l'ebbrezza di quelle isolate dalmondosulle cui testoline piove a distesadi là della voltalo scampanìoechelo sguardo nel cielo (il ciel della cùpola) già si sèntono assunte inuna tiepolesca gloriafra le nùvole a gnocchi e il color polentinain mezzoagli scorci dei fratacchiotti dalle còmode tònache e lo svolazzante drappeggiodelle Sibille e i maestosi barboni de' Vangelisti e le guancette con l'ali e ipiccioni ed il resto della celestial pollerìa.

Ma il Coro par cancellarsimentre si allunga e si inquadra egli stalli di ròvere chiùdonsi come a credenza. Travi con gli scomparti arosoni sostituìscon le vôltele cui pitture si stèndono sulle pareti - tuttisoggetti ad un tempodi cucina e di chiesa - e dalle travi vien giùpercateneun gran cuore di rame coronato di spineche è un lampadario dai centolucìgnoli. Un caminone si disegna nel fondoun monumento a tabernàcoli egugliee sottoda un'ìntegra quercia fra due colossi di alarivampeggia unalieta dalle scoppiettanti faville. È questa l'ora del chilo e dellamormorazione. La «rosa dei venti» della badessa non fe' che cangiare poltrona.Solanella sua lardosa maestàsu 'n soppedaneo alto trè palmi da terrarossa come un midollone d'angurialùcida come se verniciatacon li occhialisul frontele nari zeppe a rapè e le manone intrecciate sulla tùmida panciala badessa non dàquanto a vitaaltro segno che digestivi sospiri. Mainattesa che Sua Beatitùdine torni a qualcuno de' suòi cinque sensivediintorno alla tàvola che stà lunghìssima in mezzopanche di suorequàaffaccendate a far mazzolini d'erba amarella e di fiori di bùlgaroa cucirecuffiette pel bimbo della Madonna o strangolini pel chiericuccio nipote; là aricamare paesaggi di margheritine o a stratagliare e arricciare le invoglie peimanuscristioppure menando la fòrbice nella inèdita gloria di cartapècoraantica dannata alle compostiere; mentre Tarlescala sciamannata serva di tuttedalla lingua incessante e dalle braccia a pèntolapassa dall'una all'altra araccògliere la tiritera delle commissioni inùtili.

Alcuneperaltrosi guàrdano bene fin dal peccato dilavorare. Strèttesi insieme in un capannello di trèspolisi accontèntanoinvececon gli occhi bassi e il rosario fra i ditidi calunniare le assenti.Ben si sarèbbero accomodate al caminoma è posto preso oggisera. Perocchèsotto la cappa altìssima e fuliginosatrovi riunite le novizie e le anzianequeste a far tièpido un sangue che più non viene alla pelle neppure coivescicanti; quelle a dissimulare il troppo caldo di uno che le persegued'impertinenti rossori. E le vecchiesu 'n latosalivando castagneborbòttano dei fieri stìmoli della carne coi relativi rimedie delletràppole che i maliziosi demoniiloro apparendo nelle figure piùgrottescamente impudicheàrmano intorno alla loro verginitàe borbòttano dicerte grige notizie che una di loro ha saputo sbirciare nella I. R. Gazzetta diun sol mese primacome cioè sia imminente l'arrivo di quella furia francesescarmigliata e sbracatache smòccola teste e pòpola il mondo di exche s'ubbriaca col vin della messa e spalma il cacio sull'ostieabbattendo iconventi con le lor stesse campane fuse in cannoniDio confiscandoviolandogli hàrem di Cristo... - mentresul lato oppostole giovinetteeducande cinguèttano di men lusinghieri periglifavoleggiando paure espaurèndosi nell'inventarleoradi streghe e di ossesseora di ànime delPurgatorio che ritornàrono al sole per esìgervi i requieo d'aqua santa cheha scottato le dita di un peccatore inconfessoo di Sàtana apparso a quellaimprudenteche avèagli scrittoper ischerzouna lèttera. E Ricciarda dalcelestìssimo sguardo confida alle amichecon un tremolìo di vocedi averloveduto leiil Malignouna volta alla grata del parlatorio e un'altra algraticcio del confessionaleche «si sarebbe» - dice - «in buona coscienzapotuto pigliare per un galantuomo»aggiungendo come talora la nottenelletrasparenze del sonnouna manoaspra quale il zigrinole frisasse la guancia(che era polve di piuma di cigno) o le stirasse il cirro riottoso che pendèvalein fronte o le aggroppisse i capelliperfino osando (quì sosta) dipalleggiarle le rotondità più gelose. Sul chela bionda Orsolina dal colmoseno cela arrossendo la faccia contro la spalla di Edvigela maritina di leila qualebeccando via il dire a Ricciardaprende a narrare della fragranzamiracolosa che emana l'arca della lor Protettriceuna fragranza di melacotognae del giglio (altro letale presagio) trovato sulla coral manganelladi... e lì addita a una suora. È suor Clarala sempre estàtica suoradalvolto che è un barlume di perladalla persona che è nebbia. Clara è inpiedipoggiata ad una finestra. Tien la pupillacupidamentenella bujìssimanotte esterioredove la màgica lampa del suo acceso cervello dardeggia unaprocessione di forme; tiene la palma dietro l'orecchioquasi a raccògliere gliechi di una lontana armonìa - la più soave di tutte - la libertà.

Ma la lingua di bronzo del campanile annunzia l'ora dellaquotidiana morte. La badessa estràe a fatica il suo mappamondo dal seggioloneche vorrebbe seguirlaesuffulta alla spalla della Madre Prioravà grevegreve alla porta. Tutte si sono alzatehanno ciascuna ripreso il suo lucerninodi ferro e se l'accèndono l'una all'altra. Passa la bisbigliante frotta dellefiammelle per una fuga di pòrticiilluminandoa intervalliscrostate enitrose pitture di Santilì per cadere nelle repubblicane cartucceeimpàvide colonnine sotto la soma degli archi e baratri di scale ertìssime esotterranee; poile fiammelle sparpàgliansi pel labirinto de' corritòiunaquì pare affogarsilà un'altrae si ode il cricchìo e il catenaccìo degliusci e si ode il tintinno del mazzo di chiavi della Madre Guardiana che ronda.

E tutto è bujo e silenzio. Comincia il rosicchiare de' topie lo sgretolìo de' tarli. Rìschiansi i topi a far capolino dai loro pertugi;sdrùcciolano fuorie galoppan sù e giùscambiàndosi le visitine notturne.Ce n'è una sorta di spaventosa grossezzasi dirèbbero gatti; si dirèbberofrati. E havvi celle che si socchiùdono tacitamente e li accòlgono.

Ecco le stanze della badessa. «Sìleat tumùltum càrnis»la soglia dice alle suola. Dentroilluminazione. Il letto è pêstosconvolto.Al sòlito luogoil sòlito aquasantino colla sòlita palmail ciliciounasferza stimolatrice e la imàgine bruna di Quella che ad aver fama di vèrginedove' partorire. Finalmente donna Radegonda par desta. È in camicia. Si staccada un armadiuccio a muroi cui battenti di altareor sbarratilàscian vedereun grottinodonde esce un freschetto che sà di formaggio; e tornataleccàndosi i baffia un tavolino pien di bottiglie dal collo argentatotraova sodetartufi e cavialela fà finita con uno Spìrito Santo rimasto amezzo presso un'altra posata. Poichè un commensale ci fuuno almeno; bastaguardare al cordone di San Francescodimenticato sul letto. Ma la badessa nonne par troppo edificata. Trae dal canterano un registro e si mettecondevozionea sfogliarlo. In ogni pàgina non v'ha che una lineauna cifraunadata. Brìllano a qualcheduna gli occhiuzzi di leineri pomelli di spillosiriassopìscono ad altre. Carteggia fogli e carteggiaarriva infine a uno vuoto.S'arresta allora; bevucchia un dito di alchèrmesbàgnasi al labbro una ottusamatitaindi segnacon un sospiroun tirettouna data ed un 2aggiungendo(dopo di avere sguardato alla pàgina retro) la somma totale di «oncenostrane 40300» pari a braccia... sì e sìche fanno miglia... tant'altre.¿Or dite voiche sapete di astrometrìa - di quì al Paradisoquanta ancorstrada ci ha?

Sembradel rimanenteche in tutto il chiostro regniperpetua l'estate. Il diabòlico stormo dei pruriginosi ricordidelle caldanedelle oppressuregira a far scempio delle recluse; e quei pòveri alaticustodive l'assicurohanno un bel fare a difèndere il vas spiritualela janua coelila mystica rosacontro le seduzioni e gli ardiridei mille amanti d'ogni stoffa e misura che vèngon sù dai bauli e daicassettoni o nàscono cinque ogni mano. Orsolina ed Edvigein un ùnico lettotroppo angusto per unastannomezzo scoperteallacciate in un polposìssimoabbraccio. Amoresovrano de' sognilìbrasi lieve su loroed essepur neldormiresi scàmbiano colombinamente baci e tùbano di voluttà. Ricciardainveceche non possiede una Edviges'è addormentata abbracciata a unguancialebagnàndolo delle sue làgrime. Un'altra ancorain unquasi-sonnambulismoscìvola scalza e discinta in un remoto oratorio e là siprostra sul freddo marmodinanzi a un crocifisso di sculto legno e dipinto. Ilchiaro di lunainondando il suo voltopar che illùmini neve. Clarafervorosamente pregacalda la mente delle seràfiche istericità di santaTeresa e delle sue proprie e la si fisa intensa nel Cristosi esaltatrasfigùrasi in lui. Non più ella sente il bruciore delle percosseond'ellamartoriò le proterve sue carninon più il gelo dei lini che la si pressebagnati sull'incendio del seno e che or le si stàccano àridi; non la siaccorge neppure dello scattar di una bòtola e di un avvicinàntesi anèlito.Clara è rapita nelle membra formose del Salvatore e gemendo ne conta le piaghele lividuregli allentàtisi mùscoli. A poco a pocoun divino sbigottimentola stringe; pàlpitale il cuorecome al beato Filippoa scoppiarle.L'allucinazione è completa. La pupilla del Cristo si è inumiditae l'amorososuo fàscino posainsiste su leisèmbrano anzi le piaghe fumaresembra lavita riguizzar sotto pellementre le pàllide labbra si ricòlman di sangue etra le labbra già s'intravede con il candore dei dentila più desiata parola.E Gesù protende le braccia. Il pannolino si erge. Clara cade in deliquio.

Quando rinsensaè nella sua cellasul letto. Può ancorail volto di lei rassomigliarsi alla nevema a neve con l'impronta del piede. Lesi apportò un canestrino di cibiebbe nàusee; le offèrsero sperditricimistureindignata le rifiutò. Ma la celletta si disadorna. Scompàjono ipochi amici di Clara... la baciatìssima imàgine della sua SantailGesù-bimbo di cerai secchi suòi mazzolini - fiori di primavere che nontorneranno mai piùinutilmente adaquati dalla rugiada del pianto - lacatinella stessa di lattache ella gioiva di tenere sì tersa... perispecchiàrvisi. E la celletta s'è dal di fuori barrata. Clara non può vederche da lungi i favoriti luoghi del suo vaneggiare... e quel cortiletto profondodai glàuco-oliva riflessidove piange la luna con sì amorosa tristezza ecresce l'erbainfalciataattorno un pozzo col secchiolinoinghirlandato dièllera... e quel camposanto in pien soleingarbugliamento di croci e di rosecome la vitain cui fra la turba dal color schiamazzante donde il sonno sistilla e il nereggiar delle more che sànguinano zùcchero e il biancheggìo deigelsomini acutamente odorosiè un continuo annaspare di cavolaje e libèllulespilli e cènere alataè un fèrvere dagli avelli d'àurei sciami di apièun baciottarsiin mezzo ai cespuglidi pàsseri. ¡O poveretta! spranghe diferro già ti contèndon la fugae le sprangheinspessandosono fatte unagratacontro di cui gli augelliniûsi d'accòrrere alla tua diàfana palmabrizzolata di panepicchièttano invano i beccucci. S'affonda intanto la cella- ahnon più cella! càrcere - e si trasforma in un sotterraneo. Ùmido è l'àeresepolcrale. Tutti l'hanno fuggitala prigionierafuorchè le fiale omicide; lostesso divino suo sposo tornò quell'Orrendo che àbita eccelso in silenzio. Sele lasciàrono un dèbole lumenon tanto a confortoquanto per nonrisparmiarle la vista delle pietre tombali effigiate a badesserìgide al murol'ìnfule in capola verga al fianco; e degli ossiciniche spùntano ilmàcero suolo - pìccoli troppoper avere del mondopure il lattegustato. Eil ventre intumidisce viepiù. Fiochissimamente le bàttono i polsibàttonodentro ad armilleahi non nuziali! e vi si arrugginìscono insieme. ¡O Dio suoguarda! Ecco un ragno che tesse nella ciòtola vuota; ecco l'ala pelosa di unpipistrelloche dà nel dubbio lucìgnolo. Clara giace aggruppata sopra unmucchio di pagliainfracidendo con essa... S'assiepa notte su tutto.

Madi lì a pocoun barlume. Odesi il suono del mattutino euna fresc'àura ci accarezza i capelli. Già la nebbia si solvee nel freddochiarore dell'alba appàjono le merlate muraglie di un monastero col campanil diuna chiesa diffondente su di esse la feconda sua ombra. Intorno intornocampagne che si dirèbbero un cimiterotanto sono desertecon tuguri di cretain sfacelocon piante o marce o essiccatecon pozze di fràcida aquae... Oht'arresta! Nel verde cupo dell'erbache suda fame e terzanespiccabianchìssimo - fra un bulicar di formiche - il nudo corpo di un bimboappenanatoappena morto.

E l'albore ingiallisce e scatta il sole scintille dallevetrate del monastero. Si fà sì viva la luceche gli occhi non pônno durarcipiù aperti e che i mièi... io li apro.

Tròvomi a lettoin pien giorno.

Fugò la luce monasteri e conventi.

 

 

INTERMEZZO SECONDO

 

 

 

L'ùltimo frontispizio.

 

¡Buona notte a' mièi spettatori! èccoli addormentati.Felici loro e felice mè. Se il sonno ècome uom diceil più bel dono delcielosarà l'arte migliore quella che meglio il concilia. Tratteniàmolidunque in questa beata disposizionee peròorchestramèttiti la sordina. ¡Guàise si svègliano! Han per costume fischiare tutto ciò che non hanno capito.

Ma anche l'orchestra è nel medèsimo stato del pùbblico ¡Addìoallora alla terza ouverture! La rimpiazzerà un frontispizio.

¿Or chi me lo fà? Qual'è quel pittoreche sappia vedereoltre quel che si vede e distendanon solo colorima idèe sopra una tela?Tornao mano pensosa di Guglielmo Hògarthchedipingendo letteratura einsegnando agli artisti ad èssere nella nazionale lor storia contemporanei enella loro arte individuila Pittura rialzasti dalla tappezzerìa allafilosofiatornae ritogli i tuòi traditi pennelli a questi riempi-corniciaquesti scombìcchera-insegneinsegne senza negoziodi cui non sàla piùparteesprìmer neanche la propria ignoranzama solo imitare l'altrùi.

Quanto mi occorreè un disegno che rappresenti l'invernodell'età femminile. In quest'ùltimo attoil cèrcine di Eva muta di colpo iniscuffia. Per una donnamezza età non esiste; da giovinezza a vecchiajasaltala donnanon passa. E quì amerèio pittoreche in nove parti tu dividessiil mio fogliocioè in una grande nel mezzocircolare o quadratacon quattropìccole ovali sui lati e quattro rotonde sugli àngoliriunite fra loro einsieme divise da un intreccio di roba nel dominante motivocome ad esempiorami essiccati e scope di stregaossa spolpate e sacchi di cruscapanimalcotti e dentiereconocchie e arcolàibiscottini e castagnelibri di messae di càbalaberretti frigibas-bleuaquasantinibottigliegazzettee seggettee più che altrotricorni. Poichè al soldato millantatorequìtrovi sostituito il prete che tace (il preteche ben si direbbe la pattumieradei resti della beltà) mentre al teatro già subentra la chiesaal giornale dimode il polìticoal ricamo la calzaalle essenze di Flora la fogliagovernativa.

Nel sommo dunque del frontispiziopotresti raffigurarmi unventaglio di carte da giuococon pochi cuori e moltìssime picchesotto cuirisplendesse la cinquina delle «ante»cioè del 40506070 ed 80e neidue oo superioriai lati della cinquina - a sinistrauna soffitta conuna scarna e guercia figura d'ispiritatache in mezzo a lucertoni impagliatiabocce col diavoletto e a sgnavolanti micinitutta cenciosaprevede scettri emilioni sulla mano polputa di una contadinoccia che a bocca aperta l'ascolta - adrittauna sala dove parecchie damazze hanno riunitoall'ingiro di quelladomèstica luna che è la lucerna col globoi lunghi lor nasi a fiutare ipeccati del pròssimomentrenel fondotrè Reverendi giòcanofacendo neccial puntiglioso tarocco e pìvola un quarto in una poltrona al camino. Cosìneidue altri circoletti inferioria questi corrispondentidesidererèi duescenari di strada. In unol'alba. Due guardie di polizìa sorrèggono per leascelle una vecchia plebèa dal grugno alcoolizzatoraccolta dinanzi ad unospaccio di branda. Costèi ha ubbriacata la sua miseria. ¿A chi non farebbeella orrorese non facesse pietà? Enella scena a riscontrouna carrozzacopertadal cui sportello si mostra l'angoloso profilo di un'antica matronache dà una intralciata d'òrdini a un servo. Piove intanto a dirotto e ilrèfolo impetuoso squassa e rinversa i paraqua dei passeggeri. Ma il pòveroservoche è vecchioche è calvostà sempre lì allo sportello col suocilindro giù. E sulla portaove il cocchio è fermatosi legge:«Congregazione di Carità...» Benintesopittoreche io non ti voglio conciò imbrigliare la fantasìa. ¡Dio guardi! Fà pur macchiettefà pur scene atua posta. Macchiettead esempiodi sentinelle d'amore che ci pedìnantossendoo di calottiane straccione accosciate sui marciapiedipizzicottandonoleggiate creature cui il freddo intirizzisce il lamento; accademie disfilosofessechili di giubilatecongiure di spoliticanti (poichènon radole donnequando non pòssono più cospirar contro l'uomocospìrano contro loStato)veglie di giocatricistregazziscuole infine di schifose megerecheammaèstrano i bimbi a trovar le pezzuole nelle tasche altrui e le bimbe avèndere quanto non possèggono ancora. Tuttavìaio mi ti dirèi assài gratoo pittorese dopo di avere sfogata la tua imaginazione nei circoletti sugliàngolitu riempissisecondo la miai due laterali e ovali scompartidov'iobramerèi di vedere l'interno di una corte d'Assise e quel di una chiesa. Einquestodisegnerài un folto di vecchieche la monòtona voce di un fratepredicatore ha tutte addormentatefuorchè le priore della dottrina che sidivèrtono a bacchettare una fila di comunicande sullo sdrùcciolo anch'esse delsonnoe la seggiolaja rimuginante la sua grembialata di rame; nell'altroun'udienzain cui la vendicatrice ira che fu chiamata Giustizia condannaallegramente alla forca una dozzina di pòveri pazzidetti dal còdice reiatutto sollievo delle spettatrici attempatecheoh quì sono ben sveglie e sisùccian le dita e scialìvano di voluttà.

Senonchèmio pittoreper giudicare davvero chi seiti siaspetta alla scena del centro. Quanto hai tu fatto sin quìnon è che sua puracornice.

¡Cento anni! oh sospirata età da chi pure ti teme! Ve' lamarchesanel suo seggiolone dallo stile fuor di commerciofattasi un corpo conessoe nel suo antico velluto ora rasonero altrevolteor rossiccio; vèdilasolanel mezzo della generale ruina. Càmpos ubi Troja fùit ci si puòscrìvere intorno. Tuttoin quello stanzoneè tarlatocrepoammuffito.Vajolosa e scrostata è la vôltae della dipìntavi estate (ironicamente afresco) non avanzò che la falce: tappezzerìa e panneggiamenti sonosbiaditi e stracciati; le dorature appannatei mòbili cascherecci. ¡Guai asturbarne la pòlvereùltimo loro cemento! ¡guai affidàrsi alle sediepenail sedersi per terra! Nè più si scopa il tappetoper la paura di scoparlo viainsieme; mentre il soffietto soffia in faccia a chi l'usa ed il cordone delcampanello resta in mano a chi 'l tira. Pare insomma che con un buffo debbaandar tutto a rifasciocome un mastello cui sìeno levati i cerchi; e però sifà bene a tenere ermeticamente chiuse le imposte dai vetri iridescentiperquanto ciò sia troppo propizio alla puzza di selvatichino ovvero tanfoantiquarioe troppo poco a quel vaso di semprevivi... ¿Ma che dico? Que'semprevivi sono già morti da un pezzoed è morto anche il ragno che li velavadell'or polverosa sua bava. ¿Che mai può vivere quì? Da annipur l'orologiovi tace; anziha perduta la frecciacome le chìcchere il mànicoiseggioloni le rotelette e lo specchio il mercurio. Non s'ode se non ilcricchiare del tarlo che si fà strada alla fame; non s'ode se non lo strìderde' topiche spadronèggiano di sù e di giù e pàssano dentro e fuor dalletràppole.

E la secolare marchesatra le ruinepar la ruina maggiore.Quelle quattro pareti arièggian la cassa del cadàvere suo. Da ciò che ellaènon è possibile immaginare qual fosse; il di lei stesso ritratto da sposaingiallìaccarpionòinvecchiò secolèi. Le ossa le vògliono come uscirdalla pellepergamena matura pel grand'archivio del camposanto; i suòi capellinon sono più nemmen bianchi; càddero i dentisparìrono le sopraciglia. Dilà di quel murobùlica intanto un mondo con una testa affatto nuova; gli ètutt'altro il governo; cangiàrono lingua e moneta; cangiàrono fogge e costumi;cangiò perfin la morale. Nè il calendario le annunzia altre festenèprimavere il termòmetro. Non vive più alcuno che avrebbe il dovere dipiàngerlanon vive manco un erede al quale ella almeno possa asciugare gliocchi. Sopra gli amici di leisopra i figlicresce altìssima l'erbaanzi neifigli il becchino ha già seppellito i nipoti. Solo le indifferenti figure di unmèdico e di un'infermiera le appàjono di quando in quando; quelloa fare lemostre di rimirarle la lingua e tasteggiarle il polsotanto per allungarsi lanotasempre all'erta pel saldo; questao a darle un crollo rabbiosoo asbraitarle una ingiuria. Maper la marchesatant'è. Cose e persone le simuòvono intorno come in un sogno. Abbandonata da tuttilo è anche da sèmedèsima. La già sàtura spugna della memoria le si và cancellandoe conessa la dolce meditazione dei goduti peccati che è certo quale compenso ai nongodìbili più. Mentre il cristallo non sà prestarle più occhinon c'ètabacco che valga a rititillarle le nari; ogni vivanda le torna uguale alpalatoogni suono all'udito; se scoppia il fùlmine stesso sulla sua casaellaapre machinalmentemuta qual pescela boccaper augurargli «salute.»Eppurein cotesta sconfitta d'ogni spirto vitalein cotesta agonìaincotesto sepolcrotrèmola ancora il riflesso di un sentimentol'eco di undesideriol'ombra di una soddisfazioneche è a un tempo e tocco e sapore edodore; rièrgesi a volte la larva di quella maga verghettachea lei fanciullapiena di sonno e stupore apparendosquarciàvale il velo d'ogni mistero edicèa: «ecco la vita.» Gli è allorache la intorpidita pupilla riaquista untransitorio brillìo e la libìdine le rielettrizza le fibregli è allora chele sue mani aggrinzate...

Eciacun'altra ànima peccatora piomba e si frangequal uovonel tegamino di Sàtana pel quotidiano suo asciòlvere. Il che tupuòio pittoresegnar nell'ìnfimo campo del frontispiziosciorinàndoviquindi all'intorno una processione a spirale - di servitori in livrèa colleaccese candele e con le làgrime agli occhi... pel fumo - di chierichettispìzzola-cera - di carrozzoni vuoti - di cotte e di stole - di stendardi e dicroci - di bianco-vestite Stellinela carta in mano del tonolentamenteincedendo e cantando:

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA

 

Còdice e cuore.

 

Ersilia Blandamorevèdova Agnolottiè nel suo Sancta-Sanctòrumfra il pizzo della pettinierai piedi sul caldanino. In queste geloselocalitàodor di pasticca stantìanon è diffìcile d'incontrare unavèdovamàssime se sia sull'ammuffire; anzi dirèiche una vèdova e il suoabbigliatojo non fanno se non una cosacome ne fanno una sola alchimista efornello. La non s'acconcia peròil che signìfica che la si è giàacconciata. Difattila colta negligenza del suo abbigliamento e della suapettinatura le deve èsser costata un mucchio di tempodi riflessioni e dispilli. Ma or finalmente respira. Per quella serala freschezza e bellezza diErsilia pòssono dirsi al sicuro; e però la troviamoquantunque ancora sedutaallo specchio e alle bugìe della telettaesaminando uno scartafacciogiallastrotolto probabilmente da quel vicino stipo di sàndalounoscartafaccio sùdicio da mille dita curialitutto gualcitoa graffiatureacornifra il testamento ed il contratto di nozze. E madama ne legge un perìodopoi dà una occhiata a un librino che innanzi le stàil quale (me ne rincresceper voifabbricatori di versi) è puramenteè prosaicamente «il Còdicecivile» al tìtolo delle «successioni.»

Maa quanto parequella lettura e il raffronto non lasoddìsfano troppo. Ersilia si morde spesso le labbrasciupàndovi unsorrisetto fresco ancor di pittura. Ella ha bel lègger col cuore; il còdiceoh l'incivile! non ne riecheggia il tic-tac e le dà invece risposte che sonodosi di digitale. Vògliono che le donne non intèndano bricia agli affari. Ionon dico di no per gli affari degli altrimaquanto ai propri... ¡alla larga!

Senonchè il cuoreche ha bisogno suo cibole attira a pocoa poco lo sguardo a un ritratto in fotografìa il quale posa sulla telettae lamanoche facilmente si lascia persuadere dagli occhine segue tosto la strada.Esso è il ritratto di un militaredi un officiale di cavallerìa. Ersilia loammira innamoratamente. Di qualsisìa fucinagli sproni han sempre dolce sonatoad un orecchio di donnachè essi annùnciano il galloquel gallo che è lapassione delle galline; e così amore di cavallerìa arriva prima d'amore difanterìa per la naturale ragione che bestia con quattro gambe fà più prestocammino di bestia con sole due. Aggiungi a quell'ufficiale una nomèa diduellista; e quì tu imparao poetache una stoccata di ferro vale presso alledonne assài meglio del complimento più acuto; aggiùngigli un profumo discapestrato (cara promessa al bel sesso)di giuocatoreed anche un tantino dibirba (sinònimo tra il sesso brutto di non minchione); poi¡sfida la piùimpiombata sottana a non liquefarsi! Ma nel guardar quel ritrattoil bocchinoda popa di Ersilia si raggrinzò malizioso. Intanto la mano di lei s'era messa afrugare nello stipettodove scorgèvansialla mescolatamedaglioni a capellilèttere sciolte e a pacchettiscatolucceastuccinie ne traeva unatabacchiera rotonda di tartarugache ella pulì dalla pòlvere e depose vicinoall'imàgine in fotografìa. Stava sulla tabacchiera un altro ritratto di uomouna memoria preziosa per i molti brillanti. Sarèbbesi detto il padre di leianzi il nonno; ¡e ne era il marito! Pur¡grazie al cielo! un marito col«fu.» Oh pòvero «fu» di un sor Àngiolo! ¡quale magra figura fan lìquelli spauriti tuòi stinchiinvano dissimulati dalle pròdighe brachevericompagni di quel terzo bastone cui ti puntelli a mostrartianche in pitturauntrepiedea confronto dei gagliardi garretti e delle dense cosce dell'ùssero!oh come le tue spalluccesulle quali stà scritto ignobilmente lo sgobbopàjono rattrappite innanzi ai larghi òmeri dell'ufficialeche pòrtano cosìsuperbi la lor fanullàggine! oh come il tuo babbioparagonato al faccionesaldo di carnipieno di succhio e baffuto del maggiore Parisisembra volerecelarsipiù ancor vergognosonel cravattone e sue vele latineittèricosenza peliasciuttìssimo... come il tabacco di cui t'hanno fatto coperchio! Ilquale tabacco ben ricordava ad Ersilia il naso del fu consortema questo nasoahimè! nulla. Sul che madamaaggricciandospinse da sè quel ricordo dimaritale Siberia.

E tornò al testamento. Il testamento non èrasi intenerito.Eppure ella più non potèa serbar fedeltà ad un mortoella che non avèane alvivola non poteva più sola coricarsi in un letto che suo marito medèsimoavèa fatto costrurre per due. Benchè di cinigia cosparsii carboni del cuoredi lei non èrano estinti. Ella era ancor bellaancora piacente - e volse gliocchi allo specchio. Ma contentìssima non ne sembròdello specchio s'intende.Oh brutti specchi del giornonon più fedeli come quelli di un tempo! Poichèmadama indugiava su quel terrìbil confine che stà fra il vino e l'acetofralo scettro e la scopafra il concèdere e il chièdereil quale costa a unadonna più indecisionipiù grattacapi che non costasse al gran Giulio ilpassaggio del Rubicone. Ed era un pezzo che Ersilia non festeggiava il suocompleannoe già da cinque anni gliene mancava sempre uno a toccare que'benedetti quaranta. Invano la onesta miseria si recideva per lei le sue treccepiù nere; invano i baràttoli moltiplicàvansele attorno. Intònaco nuovo nonrinnova la casa; paralumi e velette non ci nascòndono al tempo. Era un piattinoche cominciava a putiree però gli occorreva di bolognarsi-via alla sveltapena la fogna; era una rosa in semenzauna bellezza tarmata e invocante... - equì Ersilia rifisse lo sguardo pien d'adulterio e coheuil sur ilritratto dell'officialementre disotto la vèloutine le vampeggiava laguancia - invocante i mozziconi di sìgaro e il pepe.

Oh il primo amore pàlpita benema quanto più l'ùltimo!Delle sole due volte in cui si ama davverol'una all'A della vital'altra allaZetase il primo amore può dirsi il paradiso di Adamocioè dell'inscienzal'altro lo è della scienza; è il paradiso di Epicuro e Gorini. In quelloinfattil'etàl'istintol'imperioso bisogno di èssere buoni specialmentecon unoci fanno gridare il «trovài» al primo non inamàbile oggetto didesinenza diversa nel qual ci scontriamo; àmasi allora il pan di tritelloperchè l'appetito infieriscenè ancor si conobbe il pan di frumento; equaliignari della Brianza e dei laghisi và felici in campagna a Precotto; come silegge con entusiasmo il d'Azeglio imprevedendo Rovani e si suona Gounodinsospettando Rossini. Nell'altro invece il gusto iscaltrì; si pônno fareconfrontisi scegliee della scelta si sà godere; non c'è paura dirovesciare il bicchiere prima d'averlo alle labbrama senza spànderne goccialo si centella - con calmacon erudizione. Il primo amore ci apre insomma unavia; l'ùltimo ce la chiude; il primo sottintende un secondol'ùltimo...nulla. Ed è perciò che ci attacchiamo a quest'ùltimo come alla tàvolaestrema il naufrago.

Dai quali pensieri agitatamadama si alzò e si die' apasseggiare.

Apparve alla gialla portiera la bianca cuffietta ed il rosatovisino di una servuccia annunziante: «il maggiore Parisi.»

Ersilia tremòbenchè l'aspettasse. Infatti i trè giornidi tregua èran spirati. Il maggiore veniva per la risposta. Si trattavapensatedi una mano e di un cuore e tutta lei dicèa «sì.» Ma il testamentorumoreggiava «no e no.» Avèa saputo il defunto perpetuare la di lui gelosìa.Da dieci anni lo mangiava la terra e nondimeno la vèdova se lo sentivaqualcataplasmanotte e dì sullo stòmaco. ¿Che mai rispòndere dunque? Aventimila lire di rèddito si valutava la di lei fedeltà: ¿valèvane forsealtrettante Azzolino? Ahimè! (e sospirò) ¿Ebbene? ¿non si poteva propriotransìgere? ¿non sarebbe bastato al suo vedovile prurito il possesso d'uncuore? ¿non basterebbe al maggiore? e madamasostando alla pettinierasirinfrescò col pennello un sorriso che una làgrima d'ira le avèa rapito.

«¿E gli dico?» dimandò la servetta.

«Vengo.»

La cameriera fe' per andàrsene.

«¡Stà!» disse Ersilia cacciando rinfusamente e còdice etabacchiera e carte legali nello scrignettoche serrò a chiave. «Vojaltriandate pure a dormire. Dovete èssere stanchi. Il maggiore ha molti affari conmè... Chiuderò io la porta...»

Richiese la cameriera con un ghignuzzo:

«E pel scaldaletto?»

Ma Ersiliacristianamente:

«Scuso senza stasera.»

 

 

SCENA SECONDA

 

Incendio di legna vecchia.

 

C'era una volta un signor Zèfiro Virgoletti. Egli era unomino di quellitutto elasticità e tutto pepenati a confòndere il fìsicoassioma che «dal nulla vien nulla»di quellichecominciata la lorocarriera arrampicàndosi dietro i calessirièscono a terminarla sdrajàtivientro comodamente. E in veritàVirgoletti possedèa con abbondanza gl'indispensàbilirequisiti per fare una principale figura nel mondo - doppio pel sullo stòmaco edoppio bronzo sul viso. E già avèaa quell'oraesercitato ogni sorta di«mestieri leggeri»dal giornalista al cantantedal vendilùcido al candidatopolìticoavèa già fatto il maestro di quanto non conosceva neppure di vistae l'inventore d'ogni introvàbile cosafatto l'autore di òpere in mente Deie il presidente di Società non ancor concepitefatto il dottore dellamagnetizzata e l'emigrato e il ferito «per la patria contrada»e così avèaper lire cinquantagiurato in Lutero affine di rigiurare per cinquantuna nelpapa; scritto quindi di ascètica e negoziato di bambagina; cucito libri pelpopolino sul modello-Cantù e offèrtogli insieme quel terno che per lui nonsortiva; barato poicomposto bàlsami e aque per ogni classe di gonzicavatoun dente per l'altrocompilando progetti a estinzione dei pùbblici dèbiti (eciò mentr'eraper i privatiin catorbia) e fondando accademie di letterari escientìfici scrocchi o banche predestinate a fallimenti lucrosi. ¡Ma ecchè!La stella della disdetta brillàvagli immota sul capo. Vane le trappolerìevana la parlantinala sfrontatezzala insufficienza (che è tutto dire)eglisul buono d'ogni intrapresasi addava di trarre il fil senza groppodi spararsenza pallaper cui raggiunti i trent'anni e sol trovàndosi in costa unappetito da eròeavèa finalmente compreso che una fortunase non la scoprivagià bell'e fattaper conto suo non ne farebbe mai più.

E così c'era una volta - appunto la volta del signorVirgoletti - una donna sul fiore della vecchiajache si chiamava la signoraSavina Brembati. Vegetava costèi in Lomellinatra i suòi fumìferi letamàile sue stalle di vacchele sue formaggerìeinconscia siccome un pòlipovèrgine come... - non ci ha paragone. Ella era una montagna di grascia; unpuddingo di butiro e di manzoeperchè zoppa un tantinogodèa del sopranomedi «diligenza Franchetti senza una ruota.» Sulle poppe di lei si sarebberoaccomodati agiatamente due gatti; per abbracciarla del tutto bisognava èsserein due. ¡Buona poivi sò dire! Stava in mezzo a cinquemila pèrtiche dimarcita tutte sue e si contentava. Nelle dòdici ore che la dormiva giù e nelledòdici dormite sùnon un pensiero in jattura del pròssimo. Anzilatenerella usciva dalla cucina ogniqualvolta vi si sgozzava un pollastroraccomandando però di non buttarne via il sanguee se vedèa un ragno¡Dioguardi toccarlo! ¡pòvera bestia! - chiamava tosto la serva con la ciabatta. Emensilmente faceva la sua carità della «svànzica» nella cassetta delsagrestanoe quando sentiva che qualche colono era caduto ammalatorecàvasipersonalmente a vedere... se ciò fosse veropurchè egli stesse a terrenochè la di lei carità non saliva le scale. Russava poi la santa sua messa ognidomènicamangiando devotamente a Natale il panettoneostie a Pasqua e ovasoderèquiem ai Morti e tempiarosario a Ognissanti e castagnee digiunandonelle feste di magro gàmberi e trote. Intorno a lei tutto ingrassava. Era lardoche respiràvano i pori. Fannyla sua cagnina di grembodovèa spellarsicamminandola pancia. Capponioche e tacchinibuòigiovenche e majaliparèanoper la pinguèdinebestie non mai vedutefacèano quasipiù cheappetitopaura. D'amoregiànon si parla. Troppa ciccia ovattava quel cuoreper èssere leso da un dardo; ¡eppòi l'amore è sì incòmodo! «Chi men ridemen piange» dicèa lei. Ùnico vuoto che la signora Savina sentisseeraquello del ventrezêppo il ventrenon pensava che al lettoma non al lettodi chi non vuol riposarea un letto invece tutto mollezzesenza rimorsi epruritosenza desìisenza sognitranne qualcuno di lotto. Infatti il lottoera la sola emozione che la signora Savina si permettesse settimanalmente. E benlo sanno que' trè galabroni impuntigliàtisi a fare la corte alla sua uva e adisputarsi quelle cinquemila pèrtiche di cuoreal primo de' qualicioè ildottore Semenzaun terrìbil barbone dalla voce in falsettoella fe' dire chela smettesse con le serenateperchè la notte fu fattanon per sonar madormireminacciàndolose seguitavadi rinfrescargli la testa con qualchecosa di meno innocente dell'aquamentre al secondoche era il maestro Gigliolidalla schiena a D e dalle gambucce a Xosservò sur il musoche lei non amavaun bel niente quella poètica confidenza di dar del «tù» nei sonettie chedel resto non si credesse di giulebbarla con que' nomi di Ninfadi Madonna e diÀngelofinchè tenesse nella fascietta un àgnus di religione e unastadera in casa; equanto al terzo aspirantesotto le verdi sembianze delpatentato avvelenator del villaggioil quale filava l'amore col viso di chisubisce un clistero e sospirava com'un'armònica frusta dalla minestra alcaffènon volle averlo più a pranzodicendo che le impauriva la fame.

Ebbene - signori mièi - fu proprio in giro di cotestafortezzaa quanto sembrava imprendìbileche il signor Virgolettigrattàtosile sette volte il suo inventivo cotognoaperse le parallele e le artiglierìepuntò.

Era la primavera. ¿Vorreste una descrizione? Ne ho mille.Costa poco grandeggiar dell'altrùi... Ver nòvum: ver jam canòrum;vere nàtus est òrbis - vere concòrdant amòres; vere nùbuntàlites... - (eseguitandoil mio nuovo lunario:) «consolàtevisentinelle e innamoratii quali fate la guardia a voi stessiconsumandostolidamente le suola sotto griglie che non si vògliono o sotto inferriate chenon si pòssono aprireil tempo dei raffreddori è passato; e consolàteviavariche passò insieme il perìcolo di sciupar la pezzuola. Consolàtevivecchichè la scappaste pur bella; e voipavoncellechè potete di nuovoandar passeggiando le vostre penne alla moda. Consolàtevibimbile maggiostrerossèggianomentre per voibambinajerinverdìscon le allèe cogli annessisergenti. E consolàteviosti fuori di portaricàcciano il capo aspàragi edavventori. Consolàteviàsini di quattro piedi e di dueil mese della Madonnagià prude; consolàtevitarmesi ripòngono i panni. ¡Piangete invecespazzacaminisostràipellicciàifarmacòpole! ¡Lottajolipiangete! chèquanto più corte le nottitanto meno ci ha sogni.»

Eradunquedel giorno annuale la primavera e delgiornaliero anno l'estate (àliasil mezzodì). La nostra rispettàbiledama scendeva machinosamente dal suo piano terreno e a traverso il giardino - ungiardinonon dalle poètiche ajuole di fiorima tutto prose a legumi -incedèaseguita dalla fedele Fannyun po' tentennandoverso il cancello.Chè il cuoco quella stessa mattina nel pettinarla (stòmaco e testa in casaBrembati èrano in mano del cuoco) avèale raccontato di uno strambo di uno chesi vedèa da due o trè dì al cancelloammirando per ore quel fico venutoappena d'Amèrica e benchè la curiosità (questa maschile virtù e femminilevizio) non parlasse tropp'alto nella signora Savinapurtuttavìasiccomestavolta il soddisfacimento di essa coincideva con la quotidiana suapasseggiatellala nostra signora la udiva e dàvale ascolto.

Difattidi là del cancello e appoggiato alla grigliastavalo sconosciuto. Era un ometto tutto vestito di nero e dalla fisionomìa disorcio da moscajola.

Il qualecome scorse la damatoccossi rispettosamente ilcappelloe la damabene educata anche leigli rese con un cenno di capo ilsaluto.

«Oh che pianta! oh che pianta!» esclamava l'ometto.«Scusimadama... ¿La è forse una fìcus Linnei grattabolenta

«¿Gratta...?» dimandò con un sorriso intrigato lasignora Savina. «Sarà benìssimo. Ma se il signore» aggiunsescorgendo cheVirgoletti volèa come schizzare i suòi curiosi occhiettini sul fico«desiderasse di osservarla un po' meglio...» ed aperse il cancello.

¡Quanta compitezza! Virgoletti si confuse in ringraziamentisi dilombò in riverenzesi sbracciò in scappellate. Volèa anzi tenere bassoil cappelloma la signora non lo permise. Fàttosi poi alla piantavi siaccosciò. Un padre al non sperato ritorno dell'ùnico figlio non si sarebbecondotto altrimenti. Palpàvane il fusto quasichè non credesse ai propri occhidicèale frasi di tenerezzala contemplava estasiatotanto estasiato che lasignora Savina dovette più di una volta e di due ripètergli: «¿è forse ilsignore un botànico?»

«Un po'...» Virgoletti rispose; e lìtogliendogl'incastri alla torrenziale sua linguala fe' saputa com'ella possedesse unesemplare di ficoche nelle grandi collezioni di Parigi e di Londra erachiamato «rarìssimo» e sulla propagazione di cui in aperto terreno pendèvanoancora indiavolate questioni e si èrano posti de' grossìssimi premi; comeperaltroil suo frutto non lusingasse troppo il palatosalvo a innestarlo conuna cert'altra preziosa qualitàche sapeva luisuo segretoma ch'egliavrebbe ben volentieri mostrata a una sì bellaa una così nòbile dama.

Alla quale proffertaincartata in un complimentola signoraSavina non potè trattenere un sorriso di riconoscente accettazione; e¡tracch!il signor Virgoletti ci ribadì la promessa di soddisfar la promessa al domani.Cinque-e-cinque-diecilasciàronsi simpatizzando.

E il giorno dopo arrivò e con esso l'innesto del signorVirgoletti. La signora Brembati porse lei stessa le bende per la lattea ferita ecolle fòrbici che le pendèvano dalla cintura tagliò il superfluo spago delcappio. L'operazione riuscì a meraviglia. Zèfiro e la margotta annestàronsiperfettamente.

Allora la damaper dimostrargli in qualche maniera lagratitùdine sualo invitò nel «di lei pòvero nido.» ¿Come mai dir di noalla cortesìa in persona? Per cui si pòsero insieme in cammino e la gentileelefantessasempre seguita dall'adiposa Fannycondusse il nostro cecino avedere i suòi «augelletti» (intendi la pollerìa) ch'ella ingrassava alfilantròpico scopo che ingrassàssero leie le sue «scuderìe»splèndidaocchiata di mammose giovenche e di cornutìssimi buòicon la vicinaformaggerìa dai càndidi laghi di lattefresco tanto da èssere ancora caldoe dalle pietre mugnaje di caciopezzi da cento lire lievitati in commestìbileforma; poirasentando un ruscellole cui rive èran tela e la spuma saponeepassando framezzo a formidàbili torri di legna (nè ci volèa meno per cuòcertutto quel riso che la incessante pila brillava) lo condusse a veder le sue«grotte»che avèano per stalattiti salami e per stalagmiti bottiglieconuno sfondo di botti di cui nessuna rimbombava al nocchinoe i suòi «boschi»biancheggianti e ferventi di que' preziosi operài - operài ad un tempo emateria - che càngiano foglie in seta quali artisti di genio. Non solo. Ella lovolle in sua casadonde il fràgile lusso di noi cittadini non avèa ancorabandita la campagnuola massiccia comoditàanzi lo ammise ne' penetrali piùsacricioè nella stessa sua càmera dal verginale lettone matrimonialeunacàmera in cui si ammiràvanonon scatoloni di vesti ma di semenze e seccuminon tavolette di pèttini ma di cioccolatanon vasi di fiori o manteca ma dirosmarino e mostardae nel cucinone dal molto affumicato camino e dalle paretidi ramelusso colà non oziosonon sottointendèndogli manco la relativamorale (morale fatta più chiara dalla doppia misura del seggio) consistente inquel luogotrionfatore del mèdicoche fu chiamato per eccellenza «il còmodo»dall'èssere forse solitamente l'incomodìssimo.

E quì volontieri ripeteremmo le esclamazioni entusiaste delsignor Virgoletti al màgico svilupparsi di cotante bellezzema il compositoreci avverte che in tipografia non sono punti ammirativi bastanti. Diremo soloche le figliàvano come cìmici e con esse aumentava nella signora Savina ilprurito di simpatìa per luitanto che quando si fu per lasciarsi (tossendobronzinamente in quel punto la campanella del pranzo) ella il pregò... direstare.

Dal quale pranzo data la nuova vita per tutti e due.Virgoletti trovàvasi infine a suo posto. Capo primo; vuòi la specialeconformazionevuòi la non flòrida borsaVirgoletti vivèa in un perpetuoappetitoil chese non è la migliore delle commendatizie per noi che bruciamopiù legna a stirare che a cuòcere e checontenti del fumo come gli Iddìidell'Olimpospendiamo pel cuoco quanto dovrèbbesi in cibomangiando in granporcellana porzioncine minùscole e bevendo in magnìfici vetri pèssimo vinoquasi che fosse il bicchiere e non il vino da bersisedicocotesta qualitàdi una bocca alta di cielo non è troppo benvisa a noi dall'ambiziosa miseriaè la più accettaè la carìssima invece ai nostri fratelli ruraliùnicieredi della paterna ampia ospitalità. Capo secondo; senza contare l'inalteràbilee inesaurìbile buon umoreporta maestra nelle case de' ricchiZèfiropossedèaanzi era un manuale di cognizioni per ogni sorta di pranzo: adesempioun pollo ei lo sapeva trinciare tenèndolo infisso sul forchettone esollevato dal tondosapeva condir l'insalata in maniera da soddisfare a diecidiversi palatistappava in un colpo le più ostinate bottiglieriempiendo conmille giochetti l'aspettazione fra l'una e l'altra portata ossìa traendoinaspettati partiti dagli stecchidai piattidalle posate... e vievìa. ¡Orvoi pensate alla nostra agucchiella che non avèa mai visto altrettanto!Raggiava il suo onesto faccionele tremolava la pappagorgiae il rìderelagrimàndole a trattila obbligava a posar la forchetta per asciugarsi gliocchi col tovagliolomentre la servaad aquetarle il singhiozzole tambussavala schiena. Zèfiro poi dal buon successo eccitatoingollava bocconistrangolatòiraddoppiava le giullerìesentìvasi insiemela sediafàrsigli sotto di minuto in minuto più sua.

In poche paroleda quel desinare il signorino è di casa.Egli vi entra ogni mattina per dare un'occhiata alla stampa (rappresentata dal Sècolo)e alla margotta di fico che si abbàrbica con lui e non ne esce se non in lànella seradopo di avere perduto una dozzina di soldi giocando all'oca con lasignora. Oltre il farle allegrìail signor Virgoletti rendèvale milleservizi; le regolava le pèndoletenèale viva la poca corrispondenzarecàvale il sottopiede e sprimacciava il cuscinoleggèale il «Walter Scott»in modo d'addormentarla coll'insensìbile degradar della vocevelando quinditacitamente la finestra o la làmpada e acchiappando le mosche e i farfalloniimportuni. Nè alcuno meglio di lui accendeva e manteneva con tutta economìa ilfuoconessuno affrittellava più elegantemente le uova e le frullava conmaggior brìo la rossumatina. Egli era un diàvolo nell'inseguire un debitoremorosofinchè costùiqual la gazzella il muschiato testìcolonon gligettasse la borsaed era un dio per ritrovare le più raffinate golosità opoltronerìe. Insomma il signor Virgoletti le divenne il factòtumilcane barbino. ¡Guài se mancàvale un giorno! mandava in cerca di lui per tuttoil villaggioper tutto il paese; sbuffava finchè non gliel'avèsser condotto.Chè un incòmodo stesso - abitùdine fatta - diventa un bisogno.

Ma nel sentimento di assuefazionea stilla a stilla se neinsinuava un secondo alquanto meno simmètrico. Vènus quae vènit adomnias'è ricordata della signora Savina. Quel cuore che parèa bruciato egelato da un pezzoconflagra¡e che fiamme! quella dolciaccia che giàsorbiva dormitone da rè (ahi! la falsa metàfora) incomincia a sentir tuttostecchi la piuma del lettoincomincia ad alzarsi e a scènder nell'orto all'oradella rugiadalei che a quella scendèvaci del sudorea fare mazzi di fiorilei che sol ne facèa d'aspàragia sospirare - la mano sull'amorosa spia delcuore - or guardando il cancelloora l'orme degli scarponi di Zèfiroper poiquando questi riappareaffacciàrsegli incontrosventolicchiando ilmoccichinooincomodando i suòi cento chili di polpasbassarsi a raccôrreuna viola. ¡Pòvera spigolina! la si struggèa come butiro al fornellomentresembrava che la ciccia di lei trasmigrasse all'amato. E tu càntamiMusagl'idìllicigiorni in cui si perdèvano assieme fra l'erboline e i fagioli a caccia dellefarfalle o passeggiàvano a braccio nell'ombre della lunghìssima topiaspicciolàndone l'uva; e mi canta le seretrasvolate al caminocome duetòrtoricon Virgoletti mezzo perduto nelle balzane della fattora e leggentecon li occhi che fiutàvan cipolle i fatti vari del Sècolooppure ingiardino su quel bubone di terraquel sìntomo di montagnagià letamajospentofra il gracidar delle rane e l'infinito odore di sterco che l'universofumatàcita lei qual testùgginecontemplando il lunone d'agosto o lelùcciole del firmamentolui fiso agli occhi di lei (dico que' delle orecchiedue senza-pari brillanti) e mormoràndole a tratti «¡o Savinao Savinaintorno a voi tutto ama!»

Finalmenteadaqua l'unoadaqua l'altrala pianta del loroamore cacciò fuori un bocciuolo. Già la nostra fattora trovava nel suo belZefiretto un po' troppa modestia - una virtù che in simigliante partita è piùlodata che amata. Ma il ficocome il bìblico pomorisolse gli avvenimenti. Unanno s'era intessuto su lui e il primo suo fruttoin maturanza completapendèa qual làgrima lì per staccarsi dal ciglio. ¿Che attèndere più?Novella Evala signora Savina protese con un legger tremolìo la manolodispiccò e lo divise con il pròssimo Adamo. Tutti e due lo assaporàronosilenziosamentedeliziosamente; tutti e due si occhieggiàrono il «sì.»

Senonchènel programma di quel giorno solennestava primauna scorpacciata di gala. E se questo è «l'adagio» del duettino a suon diforchette e di piatti e a stappar di bottigliequanto «all'allegro»sia cheAdamo ne avesse litreggiato un po' piùsia che avesse ingojato troppi tartufie troppo formaggio di grana... ¡Viabimbi!... un organetto sonava incortile... la servitù scodellava in tinello... ambedùe sullo stesso divano...fatto stà...

Fatto stàche chi rompe paga. La signora Savina Brembatida quell'onestìssima donna che eravolle una riparazione e il signor ZèfiroVirgolettiun galantomone anche luinon si sentì di negàrgliela; pianse mala sposò.

E quì finirebbe il racconto; magiacchèper contentare ilettoribisogna che un pòvero scribaccino accompagni i suòi personaggi - unoalmeno - fino al luogo comune (cioè il camposanto) e giacchè ioin propòsitotengo col pùbblico colpe su colpe di rientrata curiositàaggiungerò cheoggi a' dì 20 ottobre del 1876Zèfiro Virgoletti ha messo trè cose:

1° ha messo pancia

2° ha messo carrozza

3° ha messo la moglie sotterra.

¡Oh marito infelice! erèdita 100.000 di rèddito¡eppurtrova forza di vìvere!

 

 

SCENA TERZA

 

Al verde...(*)

 

«¿E dunquecome si passa la sera?» chiesi a SilvioSospiriun perticone di giovinotto biondìssimo e pallidìssimo tal da sembrareun'imàgine a fresco semi-svanita. Il qual Silvioche io tratteneva per unbottone in mezzo alla stradaera figlio d'un facoltoso mio conoscente di villaed era statodopo vent'anni di càrcere educativo in un collegio gesuitalanciato di colpo nel mare màgnum di una città capitale «perperfezionarlo» dicèa suo babbosenza pensare che un uccello ûso alla gabbia- schiùdigli lo sportellino - o non esce o vola dritto nel gatto. Veroperaltroche l'egregio pappà me l'avèa assai raccomandatopregàndomi diprocurargli delle sane amicizie. Feci quanto potevagli apersi a due battentila mia librerìa. ¡Arrivederci! Silvio non mi venne più in casa.

«Eh! ci si divertela sera» egli rispose molleggiàndosisulle gambe«si và dalla principessa...»

«¡Nèspole! ¿una principessa?»

«Eh sì. ¿Non la conosci?... oh bella!... la Potanovv...Una gran dama di Pietroburgo che riceve ogni sera e fà gli onori di casadivinamente. È vecchiama non t'accorgi. Da lei sono tutti à son aiseperchè ciascuno ci fà quanto gli accòmoda. Vi si bevesi fumasi ciancia...si giuoca anche un pochetto... ¡Anzi! ¡tòmi scordavo! jer l'altro le hoguadagnato un migliajo di lire...»

«Me ne duole» osservài a fiore di labbro.

«E a propòsito» continuò egliaffettando la spacciatura« se puòime le dovresti prestare...»

«¿Ma e non le hai guadagnate?»

«Per ciò appuntoamico... Domani me le han da pagare.»

Feci un attuccio di dispiacereesclamando:

«¡Guarda combinazione! stavo per chièdertele io.»

«Un'altra voltaallora. Adieu

«¿Vai già?»

«Sono le sei. La principessa m'aspetta.» E lìpiroettandosui tacchi e chiamando il suo Stopun levriere abbondantìssimo a gambee scarso a cervello come il padroneSilvio si allontanò a passi lunghi esconnessi.

¡E ben vada e s'imprìncipi e vada insieme in malorailcuccìssimo! La di lui principessa¿chi non s'accorge? era uno di que'prodotti che Santa Russia (questa immensa ghiacciaja predestinata a conservarela stramatura civiltà nostra finchè ne arrivi una fresca e tutta nuova d'Amèrica)favorisce all'Europa - in attesa del Messìa Knut - coll'argento di Tulacol cuojocon il Mercurio che salda i conti della sorella e con gli orsiballonzolanti a suon di bastone. Ella era di quelle sòlite dameche appàjonoe spàjono a un tratto come le celebrità della modasempre divise da maritiipotèticisempre in lite col Zar per non so quanti chilòmetri di sterilitàconfiscatale quali han dovuto cambiare ariadìcono loroper la salute e cuii mèdici han suggerito il sole d'Italia. Del nostro sole peròPàolaNicolaevna non godeva che poca lunaPàola si alzava a coricate galline.

E questa era l'oraallo scoccar della quale i suòi doratisaloni s'illuminàvano e popolàvansi della crème furfantinadel liebigdi tutte le bestie della città: era l'ora del giuoco.

¡O giuoco! sorridente parola. Per tè mi si sveglia ilricordo della seppellita infanziae i balocchigià da un pezzo disfattimirisùscitano in cuore; è una danza macabra di schioppettinifantocci ecavalloni di legno. E io odo ancora i nùmeri della tòmbola naseggiati dalcappellano e notati sol dalle ziechè il vero gioco fra noi cuginette e cuginistà disotto la tàvola; e io mi risentola benda sugli occhiin mezzo a ungran prato ed a freschìssime risa colla mia buona Marie che m'aizza e silascia acchiappare e abbracciare sì volentieri da mè. Ecco poi -all'improvviso seghìo di un violino - il nonnoun po' brilloporge la manoalla nonna e ritrova con leitra il bàtter di palma dei nipoti dei figliilminuetto che già ballàvan promessi; mentrenel caldo del caminone ospitale enel caldo dell'autunnale liquoreincròciansi in un crocchio d'amicil'epigramma e il bisticciomorsi privi di dentivespeggio senza velenosaviezza in àbito di follìa; ecco infine... ¡Ma che! non è giuocoquello.Trattenimento piacèvole è il giuoco. ¿Orchi direbbe che si divèrtoncoloroa quel verde tappeto donde si miete la gialla messe dell'oro? Mìrane ivisi. Son visi di agonizzanti che incùbano un assassinio. Mira principalmentecolèiquella vecchia (che è Pàola) dallo sguardo avarìssimola parrucca intraversoil corsetto slacciatodimèntica di quel pudore che all'età sua èprecettonon più di lussuriama di nettezza. Nonon giuoca colèi; soffre. Etutti chièdono cartesollecitàndole febbrilmentequasichè il loro danno nonfosse abbastanza velocee si sacchèggiano reciprocamentedissimulando sotto isorrisi lo strazio e nel broncio la gioia - immòbili su quella sedia e inquella stessa passione - finchè le candele abbruciando entro le gorgeretteeil primo soleinsinuàndosi per gli spiragliannùncin l'ora dei galantuòmini.

¿Or chi susurra di polizìa? ¿chi si lamenta di lei? ¿chil'invoca? Oh gl'ingenui! Que' valorosi che assaltan la strada con privilegio delrè hanno troppo da fare a difènder dai mìseri i ricchiper poter da costorola moralitàoppure crèdonoquali polìtici economistiche soltanto neicenci pidocchia la corrutela. ¡Bella poi! ¡sarà tolto il naturale diritto dirovinarsiquand'anche ciò avvenga in òttima societàanzi tra amicicangiando spesso le carte con non lieve vantaggio della tassa di bollo! ¡Ecchè!¿vuol forse lo Stato mandarci all'astalui solocon quel diavoloso suo lotto?¿sarebbe forse la truffa un monopolio governativo? TacidunqueMoraleecontèntati di rosicchiare le ossa spolpate dalla Finanza. Proibire l'azzardoval proibire la vita. Nato d'azzardo è il medèsimo mondo. Ei ti dà moglie efigliuoli; eglicon una capatati fa d'uno zero un genioo d'un genio unozero. Da luile scoperte più insigni; per lui tuttavìa la corona d'alloroche il mèrito getta a Gorinicade in capo a un Palmierie la gloria delrischioso Colombo si nòmina da un Amerigo. Tanto nella più meditata elezionequanto in un tratto di buschette o di dadi entra la stessa prudenza. Trenta equarantarollinalottomacàoson vera vita in compendio.

Come però nella vita non è tutto sfortunacosì non sipensi che al verde tappeto di Pàola non si vincesse talvolta e che anche ladama non ci perdesse talaltra. Ella perdeva anzi spessoma raramente pagava.Poca memoria in sìmili inezie di dare ed avere è cosa da gran signore. ¿E chipoteva rammentàrlene maiimmèmore per proprio conto della serale accoglienzainalterabilmente gentile? ¿Non èrano forse compensati fintroppoi pòverisoridall'assettare i loro plebèi deretani sulle stemmate sue sèggiole? ¿dalsalutarla in istradainvidianti i compagni? ¿dal sedèrsele al fianco incalessesentèndosi dire: mon cher? ¿dal potere perfinoentrando in unaffollato negozio e cavando da un portafogli un conto di lei e de' propridenariesclamare: «la principessa tale mi manda...?» - Poichè a strofinarsiattorno la nobiltàcome attorno l'ingegno e le marmittequalchecosa senpiglia; màssime dalla nobiltà di fàcile sdoratura.

Senonchèuna mattinagiusto nell'ora in cui la nottedepone il suo nero mantello nelle mani dell'albaincontrài il mio Silviopàllidoturbatìssimo. M'avèano dettoin prima sera al casinocom'egliavesse perduta una grossìssima sommae ben si capiva dall'aspetto di lui chenon avèala riguadagnata.

«¿Donde vieni?» gli chiesi.

«Vengo... vengo dalla principessa» risposemi farfocchiando.Ma stavolta quel nome non gli adulava il palato.

E¡davvero! in materia di forcatanto strozza la seta cheil cànape - tanto serve Repùbblica che Monarchìa.

 

 

SCENA QUARTA

 

¡Amico!

 

¿hai mille lire di più? Se non le haitralascia pure dilèggere questa mia e fanne un'oca pel bimbo; se sìabbi pazienza di arrivarnela finechè forse me le presterài.

«¿Come?» io ti sento esclamare. «¡La selva chiede ombraal desertola torcia al mòccolo ceraaqua il pozzo alla secchiasale il mareal postajo!» Così ècaro. Da Mida in poinon fu ricco più di mèmiseràbile.

Chè tu già sai con qual madre mi abbia punito il Signore...mio padre. Straricca di casa suala potrebb'èssere quanto moltìssimi deicosì-detti signori pàjono; potrebbe avere cavallipalchipalazzivilleggiature e fare insiem pentolino. Eppureno. Ella è ancor làaffaticando per mantenersi nella miseriadalle quattro della mattina (quasichèindispensàbile alla levata del sole) fino alle nove di serada quando impugnala scopa a quando smorza la lampaduccia di puzzolente petrolio - in mezzo a quelsuo fòndaco antico dove ogni cosa è fuor-moda salvo la lucromanìatantoantico che la mostra dai pìccoli e tòrbidi vetri divenne un reticolato dipiombo e la dittacèlebre già fra i ragazzi della contrada per le sue pitturea olio e per i pènduli pacchi delle finte candele alternati coi lignei pani dizùccheros'è fatta un sol nero nè più nè meno delle due effigi del turco edel cioccolatiereemèriti portinài; è là ancoradicofra i barili diMàlaga e le casse di melarancefra l'odor del sapone e della noce moscataaquel bancodovecinquanta e più anni fàassisteva presso sua mamma (altrodiàvolo di traffichina) al far-su dei cartocci e degli avventori; è là conquel suo viso scaltritocolor caffè Portoriccorugoso al par di un fico diSmirnedal nasetto fiut'ariadai piperini capelli e dai mobilìssimi occhiuccivendendo sempre al minuto per guadagnare all'ingrossorubando colle bilance ele fròttoledividendo poi ne' riposi i nuovi quattrini dai vecchidestinatiquest'ùltimi a chi avanza da lei - in una perpetua ostilità col pòverogaloppino che più non sà règgersi per le troppe facende e il sottilìssimocibo - eppureintascandoa suo mezzole mance - nè serenàndosi in voltonelle più ìntime gioje del gabbolareche quando o un domèstico parte con unalibbra di ùndici once o un bimbo con una «pralina» di meno sulle seicomperate.

Come del restocon tuttociònon sfòllino i suòi clientiti parrà forse un enigma. Parete lo confessoanche a mè. Non vi ha infattibottega dove si paghi più caro uno più scellerato servizio. Madamainoltrenon dà mai un regalo nè un aggiuntino a qualsisìa avventoree neanche dàquanto men costa e talora più valeuna parola graziosaanzinon appena ciòpossacontraddice ed insulta. Pur tuttavìa¿che vuòi? La insegna delBattistone è antichìssimaassài più di molti blasoni; i figli v'han sempreaccompagnato i pappà; fu sempre dessa la strada; e la stessa apparenza delfòndaco - màssime oggi in cui il droghiere si atteggia a speziale e lospeziale a dottorementre il dottore vuol spacciarsi a filòsofocome questi ateòlogo e quest'ùltimo... a Dio - la stessa apparenzadicodel fòndaco èsì schiettamenteclassicamente «drogaja» da innamorare i fedeli delle cosemen nuoveche fanno i due terzi del mondo. Al che aggiungendo la fama di unincrollàbile crèdito e la medèsima zoticherìa di colèi che stà al bancoriputata da molti «un'onestà legata alla rùstica»cominceremo tant'io chetè a sgroppire l'enigmasciolto poi se si osserva come la nostra signoracommetta le sue infedeltà così in buona fede così onestamenteda frodare alfrodato anche il diritto del lagno.

¡E pazienza fin quì! Basterebbe ch'ella lasciassel'avarizia - questo legìttimo furto - in bottegae risalendo negli ammezzatidimenticasse di èssere inscritta nell'albo dei commerciantiper ricordarsi dièsserlo in quello di un più gentil sesso. Masignorino. Chiude le impostedel magazzino ogni seranon quelle della cupidità. A sentir leimàncalesempre quel tale soldo per quella tal liraperò non dice che lira di chemigliajo; enon potendo altrimentimentre dà a tutti del ladroruba a noiasè stessa.

Edavverochi viene a trovarci la prima volta è quasitentato di menar buona a mia madre la sua eterna querela di povertà. Tu invecevedràise ci vienicome dai ricchi s'impari a fare il pitocco. Quanto da noinon è rottoè sconnesso. Un mòbile pericolantepiuttosto che incomodare ilsuo sangiuseppino chirurgolo si getterebbe sul fuococomepiuttosto checonsumarlasi lascia consumarsi la roba. Vedrài la cucina far quel terrore cheti dovrebbe la farmacìaminacciàndoti il rame verdìssima morteragione percui no 'l s'adopra; vedràianche in salaammucchiettarsi la spazzaturachè¡guài chi la tocca! finchè la padrona non l'abbia inventariata col cribro.Difattinel di lei catechismo di economìa domèstica leggo fra l'altre gemmeche «ogni cosa vie' a taglio come l'ugne per l'aglio» e che «massaja derivòda ammassare.» E cosìella tiene socchiave un vero refùgium peccatòrumuna raccolta di tutte le brice beccate-su in casa o in istradadalle testedi chiodo ai gocciolotti delle candeledai fiammìferi usati ai suggelli diceralaccadalla cènere degli altrùi focolari alle penne che le rèstano inmano nel contrattare i non comprandi pollastri.

¡Pensa poi agli uccelli di questa gabbia malprovveduta! Nonche si pretenda al pinocchioal superfluo: - già si sà che per noi lacampagna è il giardino municipale e che il teatro non ci si apre se nonnell'«ora dello scapellotto» o coi biglietti donatiquando però la signoranon li abbia potuto esitare; quello che manca è il miglio. Oh vedessi le ceredi babbodella mia Beadel nostro Brogino e della così-detta servitùtuttacompresa in un solo donnino alto una spanna! Sono rapason sego. Poichè de'capponi di sopraffitto non ci fan sangue che quelli mortiinvendutid'inediacome del manzo domenicale non conosciam che la giunta e della làuta cantina ilsol pozzo. Maanche su ciòla signora ha i suòi bravi aforismiche cioè«il vinoquanto più si fà vecchiotanto più si fà buonomentrese lo sibevepiù non diventa nè l'uno nè l'altro» e chedel resto«grassacucinamalanno e medicina.» Raro intantoquel dìin cui ci si levi ditàvola con il ventre men stretto di quando vi ci sediamo. Essa ha belingozzarci di pane raffermoha bel condirlo di strapazzate; si mangia semprecolle posate di argentofame.

Nè alla mancanza dell'interno calore compensa almenol'esterno. Siamo oggi alla metà di gennajo. Giurerèjche i nostri termòmetrimessi all'apertoaccrescerèbbero di qualche grado; tanto che a volerescaldarsi ci è necessario aprir le finestre od uscire di casa. ¡O fornàiocarbonàio ànime del purgatorio felici! Ma quì mi avverte la casalinga miamadre che «il miglior modo di conservare su di un camino la legnaè quello dinon accènderla o di spègnerla tosto» aggiungendoche «con un sì sèmplicemètodosenza mai spesa di spazzacamino si ovvìa ad ogni perìcold'incendio.»

E ¡guài se suo maritomio babboosa non èsser contento!¡Apriti cielo! «Staremmo freschi se lei non ci fosse. ¿Chi la ricca? ¿chi lapadrona? ¿chi l'avveduta? leitutto lei. ¿Che sono mai gli Amaretti aconfronto dei Cornabò? regolizia paragonata col zafferano.» Allorababbo -pòvera pesca spiccatoja - già assuefatto a ubidirla fin da quando pativa daragioniere sotto il fù Gian Battista padre di leie chemercè il matrimoniovenne a trovarsi in uno stato di minorità - ¡sùbito buci! - riempie la pipacon un quattrino del giornaliero due-soldi di tabacco in corda e ritornase èdì di lavoroal mànico del macinino del Moca o a crivellar la scovigliae seè festa a lèggere il suo giornale di quarta manoche gli descrive i vantaggidel quarantotto e della cacciata degli austrìacio a giocar degli a-solo dicarte - carte che si dirèbbero fette di lardo - compesando lo spasso con ilmollo di pane chenelle solennitàgli largisce madama a pulirle. E se iopiglio talora le difese di babboella mi sguarda con sprezzodicendo: «tu fàversi.» Copiar rògitiper lei è già poesìa. Sì che alla sera il borsellodi bile mi si gonfia talmentechemè disgraziatose non avessi una mogliesulla quale sfogarlo. E la mogliea torto garritasintetizza il propriorancore in una ceffata al Broginoche se ne vèndica tosto sul cane... che fàsaldar tutti i conti dal gatto.

¿Arricchisce dunque per chiquesta donna? Per leino dicerto. Assidua la flagella miseriafrutto della piena cassa. Ella raduna denariall'ùnico scopo di numerarlie a chi le dice che la moneta è tonda percòrrererisponde che è pure piatta per mètterla in pila. E nemmenoarricchisce pel figliosalvochè creda che i figli nàscan soltanto dopo lamorte dei genitorinel quale caso (¡alla disperazione sia perdonata lasincerità!) m'àuguro di nàscer presto.

Ma la morale di tuttociòsòmmala tu. Io mi sono almaggiore de' grattacapi. Brogino mio cresce a galoppo in statura e ignoranzadue mali che invòcano àbiti e libri. Bea intantola mogliestà compilandola sua seconda edizionebenchè dalla faccia già ti parebbe nei quaranta dì;quindi abbisogna di medicina e cucinaaltre due cose che còstano un occhio. Mail compassionèvole udito di babbo risponde a vuote saccoccementre la sorditàdella madre è troppo fondata sul raziocinio per mai sperarne la guarigione.Trattàndosi poi della nuorase pur ci sentissenon ammorbidirebbe neanche il«no» col «mi spiace.» In casa miasuocera e nuora fanno concerto come ilparlar di Bèrgamo e il toscanocome Gesù ed il papacome la legge e ilregolamento in Italia. - E peròchiedo a tèquanto mi nega la madre e miòffrono gli usurài. Mìnimo è il rischio. Io sono ricco - già il sai - anziricchìssimo. Prestami mille lire.

Il tuo sempre

Bindo Amaretti.

 

 

SCENA QUINTA

 

Nel confessionario.

 

È la garetta del cattolicismolo spiritual lavandino. Èall'amicizia ciò che consìmili località sono all'amore. Per formaunfarraginoso cassone in noce antica e massicciaa trè ripartiscultobaroccamente. Difattii suòi quattro pilastri - quattro cariàtidi d'àngioloterminanti in diavoleschi sgraffi sì da parer piedi loro - sorrèggono un granlattemiele di nubidove ¡guài bàttere il capo! prepuntato a visini paffutiche se non avèssero occhi non si dirèbbero visie nel cui sommo si sdraja unangiolottone dalle gote abbottatesoffiante in una tromba di giudiziale astaper isvegliare o i rimorsi del peccatore o il confessore che pìsola. In quelcasotto si scorgedi spirituale saluteuna imàgine della crocifissionecancellata in gran parte (salvochè nel ladro sinistro) dall'unto sacro e nonsacro della nuca del pretee di temporale il rubicondo faccione chiazzato dipòrpora del prete stesso che non vi cape quasi più dentro. Dinanzi al qualeinginocchiato sulla predellastà un uomo calvovecchio e smontato come lagialla livrèa che indossa - una livrèa dai penzolanti bottoni e dall'orgogliosemi-sbiadito di passamani ducali.

«Avantifigliuolo caro» fà il confessore in una vocetutt'olio di màndorle dolci e un imbalsamato sorrisoallargàndosi insieme conl'ìndice e il pòllice il colletto sudicelestrino. «Fin quìtu mi contipeccati del dì di lavoropeccatidiremodal becco gentilei qualialavarlibasta l'aqua del pozzo. Fruga... fruga nella pulciosa camicia dellacoscienza... Ne acchiapperài dei più grossi...»

Il vecchio parve raccògliersiintanto che il preteapertala tabacchieraaspirava lentamente una presa; poicon una trèmola voce: ¡sàIddìo quanti! ¡ma la memoria è sì fiacca!...

«Allora» ripigliò il confessorespazzàndosi-vìa dallabottoniera la tabaccosa pòlvereche andata negli occhi del penitenteobbligòquesti a starnutare e bàttere il naso sul davanzale dello sportello«allorati verrò incontro io. Tu hai un figliuolo...»

«¿È un peccato?»

«Tutt'altro. È una grazia di Dio» e lì don Perlascaspiegava sul volto del servo un moccichino tanèfatto più per sporcare chenon per pulire. «Anzi è la grazia maggiore dopo quella della verginità.Nondimeno» aggiunsesmoccolàndosi il naso rumorosamente«gli è appuntodal legno della grazia divinache si tàgliano fuori i peccati più duri.¿Com'è dunqueche questo tuo figlioper cui la eccellentìssima padrona tuaha uno speciale interesseessèndosi non solo degnata di assicurargli la vitaeterna col tenerlo lei stessa a battèsimoma anche la provvisoria colpreparargli un fiore di cappellanìacom'èdicoche quel due-soldi di cacioquel piscialettovuol fare rivoluzione?»

«Geppino è ancora un ragazzo. Non ha cognizione. Fu soloche all'apparir del barbiere del Seminarioci scappò dalle manie... ¡addìoo

«Non è naturalenon è naturale» disse il pretocchiodindonando la testa. «Punto primoa un ragazzo è sempre piaciuto vestirsi dapiù della sua età e màssime da abatino. Poila vocazione di lui era troppodecisa per potersi ingannare. Quì c'è sotto cantina... una cantina di pèssimovino; quì io odoro» e fiutò un'altra presa«il diàvolo. E non mi sbagliove'! chèa quanto ci si riferìtù stessoche come capo di casahai ilsacrosanto dovere del buon esempioti sei rifiutato a mèttere il nome in unacerta sottoscrizione...»

«Oh don Serafino! bisognava dare una lira. Sono un pòveroservoiocàrico di lègna verde. ¿Non sà forse che il pane è cresciuto didue centèsimi?»

«Mèrito doppio allora. Il mèrito consiste appunto nel darequanto non si potrebbe. ¡In sìmili casi poi! ¿Ma e non ti dìsserosciaguratoa quali estremi si trova il nostro miracoloso pontèficeche dopodi avere cavato alla Madre di Dio la macchia e largito gli incalcolàbilibenefici del sìllabo e della infallibilitàènuovo Cristosepolto vivodagli odierni giudèiche gli fanno tremando la guardia? ¿ma non timostràrono maialmeno unodi que' fuscelli di paglia del suo santo giaciglioche gìrano per tutte le terre a mantenervi il falò dello zeloo qualche po'della rùggine delle gloriose catenedonde effèrvono gl'indelèbili inchiostridei di lui difensorioppure qualcuna di quelle scaglie di pietra del càrceresuoin cui si affìlan le spade che ne saranno la chiave? ¿E se tu ciò nonsapevi per ignoranza crassìssimanon ti bastava l'argomento del nome a capo dilista di S.E. la tua signora padrona?»

Il servo sbassò la testa mortificato.

«Ma passi ciò. Quell'àngiolo d'una signora duchessachearrivaal pari della Provvidenzaa tuttoha firmato lei stessa per tèsoprale mance che ti si danno a Natale. ¡Mira tu qual padrona! E passi anche lascappatella del nostro Geppino. È ancora un ragazzo - come ben dici - e noisapendo da quale parte vanno pigliati i ragazzistà di buon animoglimozzeremo il ciuffetto. Avanza tempo di farglinon soltanto la chiercama dicambiargli la zucca di sana pianta. Quello però che non passa...» e quì lamarmellata vocale di don Serafino abbruschiva«nè passerebbe neppur tra legambe del gigante Golìa...»

Il vecchio lo guardo ansiosamente.

Il sacerdote rimase un istante in un minaccioso silenziopoi: «¿Hai anche una figliavero?»

«Sìriverenza» mormorò Mansueto.

«Faccio una tale domandanon vedèndola mai nè a dottrinanè a confessione. E¡pazienza ancora! Ma noi sappiamo che or si maritacon...»

«Oh sapesse com'è innamorata!»

«Il sòlito delle ragazze. Un'ombra d'uomo e son calde. Mal'importante stà nel ‹colùi.› Ogni buona figliuola dee innamorarsi con gliocchi de' suòi genitori ¿S'innamorò essa co' tuòi?»

Il vecchio titubòe: «Certol'è un bravo...»

«¿Bravo?» interruppe il ministro di Dio in un tono di voceche non era più neanche sciroppo di pomi inagrito ma aceto perfetto. «¿E ositù proferire una sì nera bestemmia? ¿Puòi chiamare tù bravouno che fùnon dico a combàtterema a predonare gli altariinsieme a quel ‹tale deitali›di cui tacio il nome perchè ne cadrebbe il cielo del confessionario eallora dovrèi ribenedire la chiesa; insiemea quel ‹tale dei tali› chevorrebb'èssere lui il nuovo papamandando il vecchio a vangare e mettendo invèndita noi a metri cubicome si fosse letame - a quel filibustiere feliceaquel rè insomma della repùbblicache colle mani pollute da tanto sangue dimàrtiri e da tante sgrammaticatureintasca magnanimamente... la fame deipoveretti? Oh quì non ci ha dubbio! Il testo è preciso: maledicti èruntfilii filiòrum tuòrum usque ad centèsimam generatiònem. ¡I tuòi figlisaranno tutti bastardiàspidi tutti e basilischi! Ma già il fùlminebròntola nelle mani di Dio impaziente di uscirnementre l'esèrcito diSatanasso già soffia nell'immensa Geenna... ¡Hai bel aumentare i tuòitirafùlminio stolto! ¡hai bel associarti contro i decreti del cielo!...¡Patatrac!... Senti che odore di solfo... Nono... io non posso concèdertil'assoluzione. Corre pena di maggiore scomùnica.»

Il vecchio geme' di terrore.

«Per cuivedi» continuò il pretacchionecalmàtosialquanto e tergèndosi con la pezzuola il sudore«a quali rischi ci esponi.Proprio jer l'altro se n'è discorso colla signora duchessa. Eravamo nelsalottino amarantogrogiolàndoci al caminettopost pràndium» e quìdon Perlasca ruttòforse in memoria del pranzo«e inneggiavamos'intendeal nostro immortale gerarcache ben si potrebbe chiamare il Santo dei milledoloridomandàndoci insieme le càuse della moda presente d'irreligione; ecosìpasso a passoeravamo venuti a parlare della immoralità delle classiplebèequindi in particolare della servitùe finalmente... di tè. ¡Pòveraeccellentìssima dama! Faceva pietà. Poichè ella tiene per tè e la tuafamigliuola una rarìssima deferenza. Non altrimenti potresti dormirla sìspesso in anticàmerae pigliare la sbornia. ¡Eppòi! basta pensare quantepaja di calze dà a ripedulare a tua moglie e quante sottane a stirare a tuafiglia! Senonchèprima della caritàvien la fede. Dio tenga lontano quelbrutto caso di scàndalo di cui or dicevamoquel matrimonioanzi concubinaggioma se il caso avvenisse - ¡poni ben mente! - la tua signora padronaper quantodi cuoresarebbe costretta da più sacri doveri a cancellarti dal suo servizioe dalla vicina pensione. E ora¿dimmio imprudentecacciato da una sìnòbile casa com'è casa di Stabiachi maise ne togli il diàvolooserebbeaprirti la sua? epur ricorrendo a un ospizioo mio ferro di scarto¡tròvameneunose puòiin cui non si effonda la soave influenza della nostra signoraduchessa!»

«Oh i mièi figli! » singhiozzò Mansueto.

«Dunquese ti prèmono un po' questi figlise non intendidi offèndere Sua Eccellenza e Diodevi darmi parola...»

«Sì» disse il vecchio colla voce strozzata.

«Ma¿n'è? parola di buononon da mercante o da deputatoparola dinanzi al Cuor di Gesù e alla Madonna di Lourdesche Geppino andrà aprete e Giannetta non a marito.»

«Sì... sì» ripetè il servitore col fronte sulparapetto.

Don Serafino Perlasca rimase un minuto in silenzioguatandoquella lùcida nuca a di lui discrezione. E parèa il conte Ugolino sul teschiodell'odiato Ruggeri.

«Allorafigliuolo» riprese con un risolino tra ilsoddisfacimento e lo sprezzo«giacchè mi sembri pentitoal patto cheabbiamo fermatoe anche al patto di recitare con contrizione per quìndicigiorni alla fila due credisei pàterdieci aveùndici àgnusdòdici gloriatrèdici rèquiemoltre di mortificarti nellapietanza e nel vino... ego auctoritate Jèsus Christi qua fùngorabsolvo tè ab omni vìnculo excommunicatiònis suspensiònis etinterdicti si quod incurristi quàntum ego pòssum et tuindìges - (ei s'era tolto la teologìa di capo e messo a trinciare negliocchi del penitente cabalìstici segni i quali in orìgine dovèvano forserammentare la croce) - deinde ego te absolvo a peccàtis tùis in nòminePàtris Fili et Spìritus Sancti. Àmen. Và pure.» Ma comeil pòvero vecchiorialzàndosi tutto balordo e fregàndosi colle due mani lelògore ginocchiajerimaneva lì curvo - curvo per il lungo costumequal chivà in cerca di funghi: «Ricòrdati» aggiunse«di presentare la miaumilìssima servitù a Sua Eccellenza donn'Eldae ringràziamela tanto pelmazzo di beccafichi.»

 

 

SCENA SESTA

 

La chioccia dei letterati.

 

«Favorisca di attèndere. La signora stà cercando una rimae non appena l'avrà trovatasarà da lei.» Così disse con prosopopèa undomèstico in cappa nera e fedineintroducendo Giacinto Umiltà in una gransalaed aggiunse: «segga purese vuole.»

Rimasto solo Umiltàrimase anche in quello stato d'impacciaturadi chila prima voltaè in casa d'altriprincipalmente di un pòvero in unadimora di ricchiquandoassuefatto alle gelate nudità di un intònacotròvasi intorno pompose tappezzerìe abbarbaglianti di dorature e alitanti untepore di serrae sotto le suolerôse dalla cirossaun denso vellutatotappeto. Rimase lì immòbilesu gambettucce dirò letterarie cioè un pocoguercecol suo manoscritto dal roseo nastrino in manomiràndosi imbarazzatole unghie che gli crescèvan dai guanti e sentèndosi bàttere il cuorecelermente. E infatti¿dov'era mai? Era in quel luogosuo lungo desìoanzisuo sognoma cheper quanto si fosse sforzato a raggiùngereavèa sempreveduto a tiro di telescopioin quel salone famosobigattiera di genidondeuscìvan le leggi e le sentenze della gran crìtica e si schiudèvano o siriempìvan di nubi gli orizzonti della polìticadove si gonfiàvano imàntici del giornalismodovein mezzo al fumar de' turìboli e il modulardegli zùfoli e tra uno sbadiglio e un sospirosi smattonava una riputazione dicontrabbando (legginon della cricca) o si scoprìvano di quando in quandofrala paletta e le molli o nello scopare la salai grand'uòmini; egli era daquella baronessa Caprara che dava fama e toglieva la famedetta perciò laportinaja della celebritàla pitonessa del gustola chioccia dei letterati...E lì sembrava a Giacinto di eròmpere già dal suo uovo.

In quel salone incrociàvasi curiosamente un odore d'incensoche aliava da una pròssima chiesa ed uno d'arrosto sorgente dalla cucina.Giacinto aspirò quest'ùltimo con voluttàsentèndosi galoppar le budella.¿A che grado mai di cottura poteva èsser per lui quell'arrosto? per cui sivolse a ragguagliare il suo oriuolodico la panciaal pèndolo del caminetto(rappresentante in bronzo dorato la nàscita della Poesìa al suon della lira) einsieme scorsecon un sussultonell'ampio specchio l'apparizione di un visoincorniciato di una zàzzera negraastiosa del parrucchiere - un visogialliccioa crespe ed ammaccaturedagli zìgomi in fuori e dagli occhi indentro - ch'ei riconobbecon un altro sussultoper suo.

In attesa peraltro di pàscersi il ventrecominciò apàscer la vista gironzando la sala; ecamminando più sòffice che maipotessebenchè veramente non ci fosse perìcolo che le ciabatte di luiscricchiolàsserosi diede a osservareinnanzi tuttoi quadri. I quadri èranpochima significativi. Due grandidi romanzesco argomento; il primocavatodall'Orlando Furiosola dimora del sonno; il secondodal DonChisciotteRocinante y el rucìoche si fregàvan le schiene contale amico entusiasmo da mèttere in pellea chi sol li vedevail prurito. Duepoi di mole minore; unodi tema ortolanoraffigurante verdure d'ìndolerinfrescativa come rapemalvelattugaaspàragi e zucchel'altrodivenatorioun mucchio cioè di lepriconiglimerliochebarbagiannicapponi- dipinti morti sì bene che parèvano vivi. Senonchèciò che attraeva ognisguardo era il ritratto a mezza figura della stessa padrona di casa - donnaEugenia Caprara - in costume di Saffocon una ghitarra sull'ancaun ròtolo inpugno e coronata la testa di quelle foglie gloriose «di cui ricca ne và lagelatina.» E Giacinto la fisò avidamentecompitàndone il voltograssocciodi floscia bontà e sorridente a sè stessoe più fisavapiù il cuore gli sirinfrancavamentre già gli pareva - allucinato dalla speranza e dall'appetito- che il càndido velo di lei si mutasse in tovagliain menu ilrotolettoe che sotto l'alloro comparisse un tacchino.

Il che versando nuovo olio nel lume del suo semispentocoraggiopermìsegli di esaminare più davvicino e al minuto gli arredi di quelsalone. E osò allora scoccar perfino un buffetto alle teste pelate deichinesini di porcellana che ornàvano il caminetto e acconsentìvano al mìnimosoffiopoifàttosi al pianofortesparso di mùsica appositamente scritta peltonnoavanzò temerario la mano in un grosso quaderno che ne aggravava illeggìo. Era l'òpera - o come volèa il suo autore - il romanzo di acùsticaintitolato «il grand'orso preistòrico»cioè dieci atti di fiascotra ifiaschi il più colossale che fosse mai stato impagliato in casa Capraraun'òperadi cui la tesi èran gli effetti di una morsicatura arrabbiata e il dominantemotivo l'asmama nella quale il maestroal dire di chi s'intendevaavèadovuto sudare una indiavolata fatica per combinare note che stèssero incontrappunto perfettosenz'èssere mùsicaun'òpera inoltrericca diprefazioninoteavvertenzecrìtiche e controcrìtichein cui Hans Hänschenautor loroenumerava le càuse filosòfiche e stòriche del mètodo suo e delvittorioso insuccessoscrivendo fra l'altre cosech'egli s'era proposto dicancellare con la sua àlgebra armònica tutte le illògiche puerilità che aitempi di Rossini e Bellini e simili effeminatori si chiamàvano arieduettiterzetti e vievìa. Enaturalmentequest'òpera recava nel frontespizio labaronale corona e il nome della Caprarachè la nòbile damain quella prima eùltima sera del fiascoavèa sciupatoapplaudendoquattro paja di guanti perottenere l'onore di farsi urlar col maestro - generosìssimo attoche valèaun... - e incoraggiò il nostro Umiltà a sfiorar colle dita la scopertatastieratraèndone fuori un... - sol-do.

Chècome ho dettoil coraggio ripullulava in Giacinto.Sìstole e diàstole gli èran tornate in perfetto equilibrio. Dal pianoforte -dopo una pìccola sosta ad uno scaffale sul quale scoprì con assài meravigliaun volume dei Promessi sposi in istretto colloquio con un dizionarioitaliano-francese - andò a fermarsi al tavolone di mezzoal trìpode cosìdetto (volgarmentetrepiede) nel centro di cui un gran mazzo di fiori di cartache parèan di pezza si ergeva da un mucchio di manifesti di società di mutuaammirazione e di seccature pel pròssimodi buste di lèttere dai laudativiindirizzidi opùscoli e libri e giornalitutti di un solo colore (cioè ilblù-sùdicio della padrona di casa) etorcendo la vite del collo verso unacoppastette a occhieggiare i biglietti di vìsita di tutte le celebrità delleùltime ventiquattr'ore - borsajoli in carrozzaimprovvisatori felici di versialtrùicòmpera-voti-per-vènderliumani usignoliartisti per amore delnudotinche e trotelle da inchiostro coi pescicani lor crìtici... - finchèdrusciata timidamente la palma sull'imbottito di una vicina poltronafece unosforzo e vi siedette su 'n àngolo.

Di dovegodùtosi alquanto l'insòlito mòrbidosiarrischiò ad allungare la mano ai moltìssimi libri sparsi sul tavolone. Èranolibri di tutta attualità. C'era «del vacuo infinito»filosòfico saggioattribuito a Wagnere «del paludamento imperiale sui nani»archeològicheconsiderazioni dedicate a...; c'èrano i romanzetti d'alcova d'alcuni màssiminella Illetteraturaeper conversoassài tomi della «raccolta pelseggiolino del buco»una raccolta che già comprendeva a quell'ora Ilbiscottino di Novara ossìa il premio della docilitàstoriapatriaL'insalatinanovella contemporaneaLa caduta del primodente di lattepoema èpicogli oè oèversi infantiliAprildolce dormirmadrigali e stornelliLa fede di miserabilità e Ilrisparmio del salemanuali per l'onesto operajoL'ora delle gallineosservazioni d'igieneBrodo del Seminario scene del medio evooltregli studi «sul capponarsi» e «sul far lattovari e semate.» «E fra pocoanche tu» fe' Giacinto con una occhiata paterna al suo manoscritto«anche tusiederài al convito della intelligenzaed io a quello del cuoco.» Dicendo ilches'era messo a sfogliare un grand'albo dai dorati fermagli. Stàvannell'albo i ritratti in fotografìa della più parte delle suddette celebrità.¡Caso strano! parèa soffrìssero tutti di feroce emicraniaalmeno a guardarnele pèndule teste poggiate con sì stanco abbandono alle palme. Questo peròprocedèa dall'èssere stati sorpresi nella mezz'ora dell'ispirazioneed èanche per questo se molti si èran lasciati fotografare in àbito tanto allabuonaanzi qualcuno in màniche di camicia e qualch'altroprincipalmente tra igazzettieriin pouf. ¿Non era un segnodel restoche in quellacasa Caprara vivèvasi in confidenza? Sul che Giacinto Umiltà incominciava atrovarsi un po' men male abbigliato.

Quand'eccouno squillo di elèttrici campanellie quasitosto l'aprirsi di un uscio. Giacinto si alza impallidendo e cerca di combinarela maggior piegatura di schiena colla minore probabilità di strapparsi lostrozzatìssimo frac.

Senonchè la baronessa... non era. Era invece una zuppadirò meglioa scanso di equìvociera un servo con un vassojo d'argento e unascodella piena fumante di zuppach'ei deponeva su un tàvolo.

E Umiltà risiedetteposàndosi il manoscritto sulleginocchia e sbadigliò lievemente.

Manel medèsimo puntodalla porta a riscontroentrava lamangizuppa. Entrava donna Eugenia Caprara con un far di pretesaincedendo sulleotto molletutta di bianco appress'a poco come il suo ritratto alla Saffosalvochè in manoal posto del rotolettotenèa una penna di cignoed incapoinvece della corona d'allorole papigliotte.

E Umiltà si rialza con pressa. Il manoscritto gli scìvoladalle ginocchia. Fà per raccôrlo di terrasi sbassa un po' troppoeglisfugge... Gli sfugge cosa che riprènder non può.

¡Addìo arrosti! ¡addìo gloria!

 

SCENA SÈTTIMA

 

Due buone mamme.

 

L'òrgano rumoreggiava le ùltime note della benedizione eparèa un temporale che si allontanasse. Lo spettàcolo per le tasche vuote erafinito e i chierichetti si affrettàvano a spègnere i mille cerei che facèanodel palco scènico dell'altar maggiore un vasto incendio - tutta indispensàbileluce per mantener la gente all'oscuro. Si udiva il fracasso delle scranne dipagliacheappena sgômbreèran rapite e accatastatee il trascicare delleciabatte di chi usciva dai panchi e i pìccoli scossi della bolgetta delloscaccino che chiedèa pei pòveri ai pòveriaprèndosi insieme la strada adingiurie contr'essi. Donne per la più parte. Èrano vecchie dall'uomo a Diodiscesevenute a pentirsi di non aver commessi in gioventù abbastanza peccatio a pentirsi - carità sopraffina - dei peccati del pròssimointanto chequalche ladro le alleggeriva della vanità della borsaoppure venute astabaccare incenso e a pregar la Madonna di un marito o di un ternoo se nonaltrodi un accidente al padronesalva l'intera pensione; èrano giòvaniaspettanti nell'ombra la conosciuta mano e il profumato biglietto o cercandoquèi sospirati contatti che loro il giorno negava. Da ogni parte si avanzàvanle tènebresi accumulàvanosi addensàvano. Le bugìe delle pietre tombalinon si potèan quasi più lèggere. Parèan le vôlte innalzarsi. I preti èranousciti: cominciava a entrare il Signore.

Ed ioin una poètica melancònica èstasistàvomi ancoraappoggiato al monumento fastoso dentro di cui continuava a marcire una notaconciliatrice del rè e sul quale due statue velate abbracciàvano un'urna.¿Copriva il velo il loro pianto o le risa? ¿era l'urna di cèneri o d'oro?

«Signorino...» fe' una supplichèvole voce dietro di mè.

Mi volsi: vidi la siloetta di una poverìssima.

«Signorino» ella ripetè incoraggiata dal mio pietososilenzio. «Noi siamo in quattro... a morire di fame.»

Sentìi al cuore una stretta. Perdonate; ero ancorgalantuomo; ero in quella fortunatìssima età (chi dice stolta) in cui lanostra bontà ci fà parer tutto buono e il nostro appetito tutto pien disaporequando ci domandiamo con meraviglia a che tante leggi e manette efacilmente l'amore ci si sfoga dagli occhinè mai ci pare di entusiasmarcidicrèdere mai abbastanza.

La vecchia ripigliò: «Leisignorinoè buono. Non miributta prima d'avermi ascoltata come fan tutti. Eforsela colpa è miachenon so ancor mendicare. Ma è il primo giorno che chiedo. Imparerò.» Econtinuando in un flèbile tono (dovrèi anche direcon un fiato di grappasein verità ci avessi fatto allora attenzione) la mi contò- intanto che ciavvicinavamo alla porta del tempionon so se tenèndo io dietro a lei o leidietro a mè - una semplicìssima storia di sventure (e quanto più sèmplicetanto più commovente) come cioè ella fosse vèdova di un probo impiegato - ilsuo pòvero Pippo - cessàtole improvvisamente e con lui lo stipendio e ilrisparmioe lasciàndola in una ignota cittàpriva di amici perchè conbisogno di amiciella e le sue trè figlietrè bellìssime bimbe daiquìndici ai diciotto anni. Ed esse avèan cercato lavoroma il lavoro nonabbonda alle oneste. Avèano implorato la carità parrocchiale. La parrocchianon potèa dar ciò di cui manca. L'avèano chiesta alla Congregazione piaedopo cento vai-vienisùpplicheaspettativeèrano giunte a ottenere venticentèsimi al giorno in quattrotanto da poter crepare affamate coll'òbbligodella riconoscenza. E tutto avèano esse venduto; non rimanèvano loro se nongli occhi per piàngere. Oggi poiil martello della necessità avèa picchiatopiù aspro al loro uscio: la minor figliala Ninaera caduta ammalata a farcompagnìa alla Poldae perciò la pòvera mamma - scesa la notte a celarle ilcolore della vergogna - s'era recata in chiesasperando che ivi qualcunovenissenon solo a direma a fare il bene. Ahimè! ¡il ragno tesseva sullacassetta della Elemòsina!

Ementr'ella dicèala compassione mi guadagnava di parolain parolamàssime per il raffronto tra lei e la madre del monumentolaprincipessa gloriosa dell'impudicizia figliale. Chè l'umiliarsi di questa astènder la mano per amore di Diosembràvami nobiltà doppia del ricèverdell'altra per amor della figlia. E quì pensavo come recarle soccorsoesommando gli scarsi quattrini della minorenne mia borsafacevo il conto diquanto potesse valere il mio oriuolo e l'àurea catena e poichè mi parèa chevalèsser ben poco a paragone del desideriovi aggiungevo la spilla di perla el'anello e i bottonienon contento di ciòsospiravo all'usura.

«Oh se lei si degnasse di venire con mèsignorino»aggiunse la vecchia«¡vedrebbe che cos'è la miseria!»

«¡Pòvera donna!» diss'ioe la seguìi.

Cosìdopo parecchie svoltature di stradaimboccammo unaviuzza chiusa fra alte muraglie che facèvano spanciodove i radi fanaligiungèvano appena a mostrare che quello in cui avevamo intoppato era un coccioo una pietra e che lo sfuggichìo del piede lo si dovèa a un topo morto o ad unguazzoe così fummo ad una bieca portinasopra la quale splendeva unalanterna di carta con scritto: «per pochi soldi la felicità.»

Ed ecco una turba di monellucci invàdere il chiassatello. Ilchiassatello ne assorda. Èrano gli scolaretti-operài che uscìvano dallalezione seralesfoganti la concentrata fracassositàquasi graziati dalcàrcere.

«¡Barbisa! ¡Pistolfa!» strillàrono essiaffollàndosialla porticina «¿a quanto i pollastri?... ¡Dammi un chilo di triolfa...un'a-mi-ca d'una liraBarbisa!» e facèano gesti che per fortuna la penna nonè capace di riprodurre.

Io m'arrestài spaventato e arretrài. La vecchiache giàprocedèa nell'àndito mi si rivolse con uno sguardo d'invito...

Ma una buccia cocomerina la colpì nella fronte.

«Ah forche!» essa gemette recando la mano sul cosso.

«¡Lima! ¡lima!» rispose la ragazzaglia.

Dalle finestre degli ùltimi piani svegliossi un pispiglioun parlottìo...

Io mi dilungài ancor più.

«Aspettache ve la darò io la triolfa!» sbraitòla megeraràuca ed esasperata. E fece per spianellar sui nemici. Ma perdetteuno zòccolo.

«¡Lima! ¡lima!» tornàrono i birichinisibilando efuggendo.

Ella raccolse lo zòccolo e lo scaraventò dietro loro.

 

 

SCENA OTTAVA

 

In càttedra.

 

«Trovàndosi di passaggio per questa nòbil città lacèlebre Sofonisba Altamura del Connecticutlaureata in medicinafilosofiabotànica e astronomìala quale ha già commossoelettrizzatofanatizzato ipùbblici principali del nuovo e del vecchio emisferos'invìtano i veri amicidel progresso socialee specialmente le amichea voler rènderle omaggiointervenendo a una conferenza che la illustre Dottrice terrà intorno alla piùardente piaga del giorno‹la schiavitù delle bianche›. In questaconferenzala donna verrà esaminata da tutte le partisi enumereranno itìtoli suòi psicològici e stòrici al primato animalela si torrà insommada quel carruccio di minorità in cui fu messa dal maschionon tanto persostenerne quanto per impedirne il cammino.»

¡Sùsùdonne! L'arrosto può bene abbruciare quest'oggianche senza di voie la biancherìa sporca rimanere innotata sul suolo.¡Presto! appendete i vostri puttini affamati al collo dei loro asciutti pappàe staccate dal muro le mantellette e i cappelli... «La conferenza avrà luogoalle due in un'àula dell'asilo infantilegentilmente concessa. Prezzod'entratauna liraa tutto profitto della grand'òpera della Emancipazione.»

Così dicèa un biglietto-programma che destramente un amicoavèami imposto il dì stesso dell'annunciato pettegolezzo e che dovèa averfattoa guardarne il color-Isabellail giro di mezza cittàinnanzi trovareil suo goffo. Macon mèil goffo c'era. Chè io tengo un fortìssimo dèboleper ogni gracchione o papagallina di càttedramàssime quando si tratta diunala qualecon una filza di sragionamenti - corridòi che non condùcono anulla - vorrebbe persuadermi che il sesso di lei ragiona meglio del mio e lìarma una requisitoria contro il sesso barbutotacciàndolo di conculcarel'imberbecome se mezza maschilità non stesse invece a ginocchia boccaapertadinanzi a queste idolesse; tacciàndoci poi di mantenerlenell'ignoranzaquasichè mai una legge avesse loro proibito il buon uso deilibri e dei sensinè fosse lor stato al capire altro intoppo da quelloall'infuori di un cervellino privo di zìpolo e così domandando a gran grida uninvertimento con noi delle parti divise dalla stessa Natura nell'umana commediae divise a tutto loro vantaggioperchèse nostri sono il giorno e la piazzala notte è di esse e la casa - quella casa che è il cuor del paesequellanotte che gènera il giorno. Dal che vedetes'io sono poi tanto misògino comeparrebbe alla scorza. Io non dimèntico mai di aver posseduta una mamma la cuiprofonda bontà facèa spesso arrossire il mio ingegnoe non dimèntico ilbìblico de mulière homo. Uomo e donna complètansi vicendevolmentecome il bottone e l'occhiellocome il violino e l'archettocome il seme e laterra. Potrèine sono quasi sicuropensàndoci un poco sùcitarvi qualchedozzina di azioni che fanno onore alle fèmminee in ogni casose scrivessi dinoimi esprimerèi assài peggio. Quì tuttavìain questo capriccio difantasìa e in questi cinque minutivolli vedere più con gli occhiali affumatidel disinganno che non coi rosati dell'illusione - volli - e la mia scusa stàin ciòbenchè non stia il perdono.

Senonchètornando a' mièi polli (chea dire il verosonopiuttosto galline) vò a casa col biglietto-programmadò la leva alla Delia -una ignorantìssima bimba che non sà altro che amareun canarino che mi tiengaja la gabbiamia provvisoria carìssima - e ce ne andiamoallungando un po'il passo (chè Deliaquando c'è da abbigliarsispende un tempo infinitoforse per compensare la fretta dello spogliarsi) a braccettocontenti più chedue sposiverso gli asili infantili. Macome temevola conferenza giàvolgèa al suo fine. Ogni punto v'era stato discusso e naturalmente vintoedoradopo il riposo di alcuni minutisi attendeva il ripicco della perorazione.La gruccia intanto non avèa più coccoveggia. Sofonisba Altamura se ne eraeclissataforse a cangiare l'ideale coturno colla reale scarpetta.

Dunqueio e Delia occupiamo tranquillamente il nostro sedilee vi ci orientiamo. La maggior parte del pùbblico è nude panche. Nel restopoche vecchie fisionomìetroppo appagate per avere pagatoe quasi tutte iniscuffia e tutte della sòlita biscotterìa.

Chèper esempioc'è la marchesa Pàola Luzio-Medagliaquella nana che pare stata anni in una infusione di tabacco del Moroe che giracon un far da padrona la salaperchè fu lei la promotora dell'adunanza. Lamarchesa è delle più assidue acculatrici di tutte le panche scientìfiche eletterarie della cittàdonde nutre la sua enciclopèdica ignoranza e però hal'ìntima persuasione di èssere una gran letteratatanto più che impiegaannualmente una somma in inchiostroin mazzi di pennein carta netta esùdicia. Eppure un granino d'ingegno lo ha e lo mostra nel guarnir di merlettii propri spropòsitinello stamparliper così direin majùscolein ciòdiversa da molteche li làsciano còrrere come la cosa più naturale delmondo. Delle quali un saggiuolo è colèi che stà in quella zòtica posa coigòmiti sur il bancoreggèndosi fra le rosse manacce la zuccae che hacapelli «alla Bruto»occhi da rosponaso camuso e bocca che par contenga duenoci. Il suo nome (suoperchè l'ha inventato lei) è Ula di Monteferrocui nel sottoscrìversi aggiunge «figlia del padre Sole e della madre Terra.»Ula è la presidentessa della «Società còsmico-umanitaria contro Dio e isuòi ‹vice›contro la guerrail suicidioil duellola pena di morte eil matrimonio»; di piùè cavallerizzagiocatora di pallonegazzettiera escrittrice di un centinajo di romanzi e di drammi sanguinolenti come la cartadel macellaro. Ma il mondo può dormire ancor quieto. Fin quì la nostrarinnovatrice non giunse ad emanciparsi che dalla sintassi. Ulache sfida aimproperi la sempreassente divinitàimpallidisce al rovesciarsi di unasaliera. Ulache tiene sul tàvolo un teschio ed in saccoccia un pugnalesviene alla vista di un topo. In fondove la consegno per una innocua bestiolanè più nè meno della sua vicina ed amica Aura Percottibarilotta di donnadai capelli imbandolinati alla cute e dal roseo visoccioche sorride giulebbe egira occhiate candite. Aura è una maestra ispettora. Sà a memoria e conabbondanza il toscano e la gramàtica del Soaveed è una indefessacollaboratrice in quella raccolta già menzionata «pel seggiolino del buco»benemèrita dell'ignoranza. Nè c'è buona mammina che non aquisti annualmentele commediole della Percottidove l'amore par non impùbere ma capponatoe lesue Auree novelle nelle quali la diligente Virtù non manca mai di ottenere ilgran premio e il ragazzaccio Vizio le pacche; tutto cibo che leva le forzetutto vino che non lascia macchiatutta scioccàggine che si smercia e si lodanel nome di semplicità.

Mavèh! non giunga tale parola alle dottìssime orecchie didonna Apollonia Sgambati e di donna Perla Smeraldi. Sola stoltezza cheammèttono queste è la complicata. Donna Apolloniaad esempioè la Capadella coalizione nostrana contro la mùsica fisiològica a favore dellapatològicae poichè donna Apollonia allèa i propri principii ad un cèlebrecuocoha dalla sua la stampa e la tribù di chi suona. Ch'ella abbia posto pertuttiniun dubbio. Peserà cento chili a non calcolare la scienzae si direbbeuna saltimbanca di piazza cui non mancasse che il tamburone. Invecedonna PerlaSmeraldi è una scopa in gonella. Costèi è l'azzurrala dottoressadella camarilla - di quelle dame cioècheessendo al corrente di quantosuccede alle fonti del Nilo ed ai poliignorano che mai avvenga in lor casache conoscendo i nomi latini e la vita d'ogni spece e subspece di tutte lebestie del globocòmprano antichi gallastri per pollastrellechezeppe latesta di logaritmiàngolilatiequazionisono obbligateper i conti delmesea ricòrrere ai diti della fantescacheritornate da una lezione difìsica làsciano pèrdere il fondo alla caffettiera per mancanza di lìquidoofresche di una d'astronomìanel regolar la lucernala smòrzano.

Oltre le qualiinùtile dire come fosse nell'àula ilsòlito stormo d'appaltatrici di quella beneficenza a campana e martello ossìapùbblicacui è dovuto se l'eccezione della miseria divenne un mestierenormale - patronesseispettorevisitatricigiracaseseccamalati e vievìatutte dilettanti-accattoneche fanno la carità coi denari degli altri e larèndono invisa colla intromissione propriatutte propagatrici di un socialismoassassino dell'individuo e della famiglia - e inùtile direcome fra lorospiccasse la nostra Eugenia Capraraco' suòi bianchi capelli acavaturàccioloil suo naso pien d'importanza e tabacco e il suo risolino dicompiacenza e di protezioneche tradotto dicèa «nul n'aura de l'esprithors nous et nos amis.» Aggiungi però che presso leia raccòglierne ilvaniloquiostava ossequioso un barbuto figuro di cui la faccia parèa nontroppo amica dell'aqua e l'àbito della spàzzola. Era egli l'ùnico bue ditutta la mandra - era il primo manubrio dell'òrgano loro «il Giornal delleSchiave»- era di tutte lo spiritual direttore. Noto assài nella libricastratioe nella pedagogìaavèacollotorto dell'ùltimo gèneretoccato i sommionor della greppiasempre attaccàndosi alle sottaneprima dei pretipoidelle donne. «¡Anima càndida!» esclamàvano queste. - «Tutto pelo»osservo io«¡dal parlar dolce!» sospiràvano esse«dal putire dicapro» io aggiungo. Fatto stàche il professore Tamberla...

Ma quì la marchesa Pàola Luzio-Medagliache spingèa losguardo alla rima di un usciovolge la testa alle amichecome a dir loro:«viene.» Nell'àula si ridifonde il silenzio. Ecco difatti (e Delia dovetterecarsi il fazzoletto alle labbra) Sofonisba Altamura. Sofonisba era più gobboche corpo e meno volto che gesso; parèaparlandoche aprisse non tanto labocca quanto il naso e la bazzae parèaguardandoche meno mirasse con lepupille che non colle cìgliatanto folte le avèa e annerite. Macome se inaturali orrori non le bàstasseroella èrasene aggiunti più che poteva diartificiali. Certamente non la peccava ne' sottintesi. Avèa indosso tutti isuòi ori e tutta la sua guardarobaun musèo di guarniture - orecchini incorallocollane alla turcaspilloni a mosàico con sù il Colossèofibbie àl'Empirebraccialetti barocchi - sparsi su 'na toletta di robavecchia e scômpagnache cominciava da un cappellino con piuma celeste eveletta gialla e da uno sciallo aranciato a gran papàveri rossi e finiva in unagonna violetta e in un pajo di guanti verdògnoli. «Un vero» come Deliaosservò«arcobaleno smontato.»

Ed èccola in càttedra. La si drappeggia oratoriamente loscialle; la si raccoglie un istante colla mano alla bocca; poifra il più tesosilenzio:

 

«Già mi pare» o carìssime«di avervi a sufficienzamostrato come la donna meni l'uomo pel naso e sia di tutto capacerovesciandocon un buffetto quel castello di carte penosamente costrutto dai Santi PadriAristòtileD'ElciGiordano BrunoAcidalioBüchner... e sìmili stupidelliscusàbili appena in riguardo al lor limitato intelletto di maschio - sul cheoso dire che di confutazione ne avanza per quanto ci si può in sèguito opporre- e così parmi di averenon solo rispostoma ritornate ai nemici quelleplateali insolenze di ‹serratura in cerca di chiave›di ‹pera senzapicciuolo›di ‹tara›ossìa ‹giunta dell'uomo›di ‹semoventelatrina›di ‹fair defect...› e vievìache si provèrbiano controdi noi provando insiemecol numerarvi le nostre eroine dalla Saffo alla Sandla eccellenza del sessodonde consegue il dovere nei maschi di abbandonarcisenza più sotterfugi il posto usurpato...

«Resta ora a vedere che si farebbese i maschi - allanostra equa domanda - rispondèssero: no.»

 

(¡Udite! ¡udite!)

 

«Certo è che il caso venne da loro previsto. Non altrimentisi saprebbe spiegare quel tenerci lontane dalla pùbblica cosaquell'interdirciogni esercizio educatore dei mùscoliquell'obbligarciche è peggioin unaspece di saccoche ne impedisce e nelle idèe e nel fatto la libertà diprocèdere. Di più; tutto il ferro lo sequestràrono essi a tutela della loropaurafuorchè qualche scheggia da noi sottratta per gli aghi nè cilasciàrono il rame se non avvilito in caldài. Oh bella grazia davvero quelprodigarci i due più imbelli metallidissimulate catene! Per loro intantoilfùlmine in polve di Schwarz e le palle generatrici di morte; nostre invecel'asciutta polve di Cipro e le palle... da rammendar le calzette!»

 

(Gruppi di risa feroci)

 

«Eppure - sorelle - un'armauna terrìbile armanon ce latòlsero ancora - nè lo potranno - un'armadinanzi alla quale i loro cannonidivèntano cialdee le lor pòlveri... Sedlitz...

«¿Che è mai?

«Ciò saprete. Quì stà il mio sublime misteroquì l'uovoda mè covato per trenta e più anniquì il dolce frutto di tanta amararadice. Ma permettètemiprimadi raccontarvi il come della scoperta.

«Essa fu fatta come ogni grande scoperta si fà. Mi siofferse spontanea quando men la cercavo. Era sera; un dopopranzo. Avèo bisognoperchè digerissid'irritarmi la bilemio consueto caffè; e però avèoaperto quel mascalzone di un nostro odiatore Aristòfane (che io leggo inoriginale nè più nè meno di una Dacier) e ripassavo appunto Lisìstrata.

«¿Sapete voi chi fosse Lisìstrata? Una atenieseche èquanto direuna parigina dell'antichità; una donna tutto risorsela qualeimprecando alla guerra civile che desolava la Grecia e volendo troncarlaavèaimaginato il più nuovo e più efficace spediente che mai si potesse. ¿Cioè adire? Cioè a direchiamava celatamente a sè le mogli e le amanti delle dueparti nemiche edopo un discorso che non par scritto da un uomotanto è pienodi lògicale persuadeva e stringeva coi sacri orrori della religione a non farpace coi propri maritifinchè i mariti non l'avèssero prima tra essi. E il‹no› delle donne rumoreggiò allora per tutta la Grecia. Così la guerra fusciolta.

«¿Ebbene? ¿che ne pensate? perchè mò la finzione di quelmalignìssimo greco non potrebbe cangiarsi in una benèfica realtà? Egli l'armaci addita: preoccupiàmola. I nostri amici migliori sono spesso i nemici.¿Perchè non potremmociò che Lisìstrata fece per amore di tuttiripeterlonoi per amor di noi sole? Non c'è uomo cui manchi un po' di gonnella allecoste; non c'è donnacheoggi o domaninon paja bella a qualcuno. Ora nienteper niente. ¿Intendete? - Nulla da noi finchè i nostri tiranni non cidomàndinosupplicandodi èsserci schiavi»

 

(Principio d'applàusi).

 

«Senonchè» seguitò Sofonisba«l'ìntima essenza de'maschi è la menzogna; chè non per altro hanno inventato quel solennìssimoinganno del giuramento. Giovesecondo loroex alto periuria rìdet amàntum- et jùbet aeòlios ìrrita ferre Nòtos. ¿Chi di noi non ne hafatta lagrimosa esperienza? Dee un minuto primaun minuto dopo s'è bestie...¿E allora?»

 

(Frèmito d'attenzione. Anche Delia occhieggia la stregaattraverso le stecche del ventaglio).

 

«Allorao donne dei due emisferi» tuonò quella furia conun tràgico gesto«¡vendetta! ¡Sìorrenda vendetta! La cucina è in mannostra; in nostra mano è la vita dell'uomo. Io già aspiro con voluttà l'acrefumo de' boleti agrippinei; odo già l'unghie grattar verderame; odo i pestelline' bronzei mortài acciaccando cantàridi e gommagotta e vitriolo e scorpioni.¡Che ogni fornello di guardaroba si converta in un trìpode d'Ècate! ¡che lavirtù dei fiammìferi si colleghi a smorzare! ¡che tutti i veleni delle nostretoilettes pàssino nelle pance maschili! Giammài la benzina avrà nêttauna macchia maggiore. La gran notte è venutala grande ora scoccò. In millefuliginosi camini si appicca casualmente l'incendio. Ogni spillo ha toltodi mezzo uno schioppoogni sputo una càrica. Si propàgan le fiamme; gèmonole campane sotto il martello incessantee alla lùgubre lucevedi i padrifuggire facèndosi scudo dei figli. ¡Ma invano! La spina del maschil sangue èstrappata. Cola il sangue a torrentisi elevasi elevae tra lo scoppiar delpetrolio e lo sfasciarsi degli edifici e l'urlo di chi s'affogal'innos'innalza della Vittoriache annuncia: spento è il mal seme d'Adamo. Eva s'èriscattata.»

 

E quì la megera taqueanelando. La libìdine della stragescintillava negli occhi di lei e negli occhi delle sue vecchie uditrici. Ellataque e un battimani echeggiò. Da ogni parte si accorre alla cattedra nèl'oratora ha mani bastanti per tutte; si grida «brava!»si svèntolano ifazzoletti e il professore Tamberlaentusiastale offre... un cartoccio dicaramelle di pomo.

Io tentài nel braccio di Delia. Delia girò verso mè ilpiù moscadello e innamorato dei visi.

«E dunque?» le dimandài. «Vuòi emanciparti anche tù?»

Ella sorrise e rispose: «Per mè m'accontento di startitutta la vita sotto.»

 

SCENA NONA

 

Trè ritratti a figura intieragrandi al vero.

 

Al viaggiatore cheper contentare «la Guida»và avisitare la pompa delle miserie dell'ospedale di Xnon mai si manca di aprirecon una tal quale solennità il salone delle adunanze dell'alto Consigliodovei signori Tarocchi della cittàcui è commesso di fare il bene il piùpossìbile male (precipuo scopo della beneficenza pùbblica) riunìsconsimensilmente su mòrbidi seggiolonia guardare per qualche ora i polpacci delledivinità della vôltafinchè il campanello del presidente annunci loro che ilsilenzio è levatoguadagnata la tèssera di presenzae che è tempocon ununànime votodi... lasciar còrrere l'aqua pel Pò (e per le caldajedell'ospedale) o di mèttere il «visto» sulla ferocia del mèdico A e leladrerìe del farmacòpola Bfacendo quello che secolarmente si fà esottoscrivendo a quanto si trova già scritto. E c'è lì pronto un prato ditavolone con un sarcòfago argenteo capace d'inghiottir chi v'attinge e unabarricata di carta e un mezzo deserto di sabbia e una selva di penne aquilinedalla punta d'oca. ¡Al sòlito sempre! il maggior apparato di scrìvere dovemeno si pensa.

Ciò che peraltro interessa il colto visitatore non è tantoquel lusso di cancellerìa e di poltronerìanè il Cristo colossale di legno(un Cristo tradito da un nuovo Giuda e messo in croce nella più indegnamaniera) e neppure la Maestà Sua di gesso (dico il busto del rèmodellato nelgessoo perchè sìmbolo questo di un costituzionale sovrano o perchè còmodoassài ne' repentini passaggi di temperatura polìtica) quanto i trè ritrattonidelle trè somme benefattrici di quella malèfica baraonda.

E il portiereadditando per primo il ritratto di faccia alCristo di legno - cupo ritratto dallo spagnolesco costumein cui di bianco nonspicca se non la enorme inamidata gorgierasìmile a un tondo con sù una testamozzata - vi dirà che quel bujo e quella patrunia son nientemeno che lamarchesa Andegarimoglie di don Ramirocoronel de su sacra real Majestadmarques de Birbança conde visconde baron... elì un rosario di tìtoliindispensàbili a porre un pòvero uomocuitòccanonel comodìssimo stato di non saper più giustamente chi e' sia. Lamarchesa stà in piedi presso una tàvola. Posasopra la tàvolaunamarchionale corona ma ella par rattenerne sulla fronte aggrondatal'incerchiatura. Le contrazioni quotidianamente uniformi de' mùscoli hànnolescritto nelle rughe del voltomeglio che non a parolela fedina moraleeperòavendo l'artista tradito quì la natura un po' meno del consuetovi silegge alla prima come la nòbile dama sia di quelle creaturecattòliche moltoma assài poco cristianele quali crèdono in buona fede di èssere entrate nelmondo per una porta diversa dalla comune. Io imàgino che nelle sue stanze fosseun'ùnica sedia e questa a lei riservata. Dal cadavèrico giallo e dal seccodella sua pelle la si direbbe nudrita a sol pergamena e dalla rigidità dellemembra sembrerebbe impalata - màrtire dell'etichetta - sul rettìssimo fustodell'àlbero gentilizio. Intanto il di lei occhio mancino sbircia ad una stellagemmata che le stà al posto del cuorementre il destro si sbiecavers'un'àurea crocettache la corrispondente mano - o piuttosto zampa di pollo- impugna. Poichè bigottismo e albagìacoteste scimmie del rispettoall'ignoto e della conscia virtùsi danno il braccio non rado. È infatti lareligione che insegnò la viltà agli umani ginocchi. Ùmile per orgoglioCaterina Andegari s'era degnata morire nell'àbito delle mònache scalzelasciando loro le non più sue ricchezze da sminuzzarsi in tante annue dotialpio scopo di accrèscer servi al Signore. Nè inefficace il suo voto ¿Qualmiseràbile per duecentotrentatrè lire può rifiutarsi d'imporre la vita ad unnuovo infelicequandoper molto menogliela torrebbe? ¡Vìvano dunque ledoti della marchesa! ¡fiòcchin le sùppliche per maritare la propria collamiseria altrùi!

L'altro ritratto è invece una figura chiara su fondo chiaro.Rappresenta una fresca vecchiotta dal gaudente faccioneabbigliata di un nerovelluto che la ricinge fin sotto le ascellema a braccia nude e scollata e conin testa una cuffia bianca di pizzo e sopra la cuffia un cappellone di paglia.Costèi è una baronessa del grande imperoOlimpia Ercoliani. È uno di quelliesemplari di donna in istile romano-baroccocosì bene intonate col militarerimbombo de' rossiniani motividi quelle bellezze senza risparmio e peccatricisenza rimorso di cui la ricetta s'è pêrsa. Nata in tempi nei qualighigliottinàvansi coi vecchi capi i pregiudizi vecchila baronessa avèaentusiasticamente adottata l'acconciatura de' nuoviinneggiandotra i primiaquello della fraternità. Troppo bella per èssere casta nè conoscendo l'artedel negareella veniva assài facilmente all'ùltima confidenzaanzi alnapoleònico «affare di canapè»senza che il pòlline regio le desse mai lanasetta per il plebèo. Non sembra però che alla salute le fosse avverso ilpeccato. Novella Ninonla baronessa oltrepassava i novantanon solo sulle suegambe (il che sarebbe già molto) ma con tutte le sue rotonditàtutti icapelli ed i bianchìssimi denti benchè pipasse da turcocon l'appetito disettant'anni addietro e uno stòmaco parie così era giunta a quel salto nelzeroche noi chiamiamo la morteavendo ad inalterate compagne le sueinobbedienze carnali e la giacobina spregiudicatura e la pugnace vivacità daimoti di verduraja e dai «mòccoli» di casermanon ricordando altro cielo cheque' della bocca e del letto ed in nulla fidando fuorchè in Napoleone e sèstessa. Non dùbitovivrebbe ancorase il mèdico non l'avesse voluta guarire.E la baronessaanche leiavèa ambito al pùbblico onore dei quattro metri dicanovaccio dipinto e perciò apriva una «ruota.» ¿Pensava ella forse allevolte che nel giocar l'ambo sortìvale il terno? Fatto stàche la ruota giratuttoraimbastardendo i leggìttimi e gareggiando col cesso. CosìOlimpiaErcoliani ha completato il misfatto dell'Andegari. ¡Giù figli senza pauraosposi dalle duecentotrentatrè lire! ¡Malthus abbasso! basta la Provvidenza.

Ed oraèccoci al terzo ritratto. Questo non è di marchesae nemmeno di baronessa: è puramente di una Giuseppa Struzzia. Il ritratto ènel costume del giorno. Per quanto il pittore abbia cercato di confinarlalasignora Giuseppain una benigna penombradissimulàndola più che poteva frail tappeto di un tàvolo e le pieghe di una cortinase ne vede ancor tanto dastare certi che una delle trè Grazie non è. La màssima parte del seno leemigrò nella schiena ed il poco avanzato le si sviluppò nella gola. Non unafacciaè un naso; anzise tu ne avverti il tabacco e il plumbeo del coloritoè una vera boetta. Giuseppa Struzzia ti simboleggia la involontaria verginità.È la figura di una di quelle infelici che la lunga agonìa di un insoddisfattoappetito esaurisce e dissecca. Ma dalla scuola dei tormentatii più ferocitormentatori. Sènape e fumo per gli occhi di chi l'attorniavala signoraGiuseppa possedèvane uno (e «uno»dicodi nùmero) cui non sfuggiva una solbricia di male e possedeva una lingua che avvelenava ogni stilla di bene. Nons'induceva ad èsser teco gentilese non per mostrarsi indirettamente villanacon mè; e quantunque tenesse la propria vita per un ùnico dentepur ne tenevaabbastanza da insidiare all'altrùi. O tùcieco nipote¿a che strìngerti ilpane per adular di leccornie il suo irriconoscente palatofesteggiàndone o ilnome o gli anniun nome che mai non ebbe per essa diminutivi e degli anni orsfrondati da ogni promessa di frutto? E senondimenoti ostini nella fatuasperanza ¿o perchè allora pompeggiarle negli occhi l'insulto della tua frescasposoccia e della tua nidiata di bimbi? Non è l'oro soltanto che si ammucchiada leima la bile; nè la bile è per indiavolàrsele insieme. Muor l'uomononi suòi odii. Vi ha gentenota nella pùbblica fedeche li raccoglievi haleggi che li protèggono. Mira beneo nipoteil funesto loscheggio dellosguardo di lei e il sottile sorriso di quella bocca slabbrata e su tutto quelceffo l'incubazione omicida di un testamento. ¿Ma che dicomira? Già ipesciolini del sospiratìssimo stagno ti lampèggiano innanziguizzando ver lepaludi dell'officiale beneficenza. Completamente tua zia ti buggerò. Più nonti resta che a sentirne l'elogio dalle gazzette. Tua zia avrà un monumento:essa ha dischiuso un ospizio alla miseria non tua - alla miseria evocata dallesue degne predecessore.

Poichè le trè illustri benefattrici han voluto eternare laloro perfidia o la loro insipiente bontà - il chenegli effettiè tutt'uno.

 

 

SCENA DÈCIMA

 

Il fèmmino.

 

«È una donnacredi.»

«E io ti dicoche è un uomo.»

«RipetoScioli è una donna.»

«Ripeto anch'ioè un uomo.»

«Ohperdìose non la èsono io. Aspetta un po' agiudicare. ¿Lo diresti tu uomoun coso che si leva alla una - parlo dell'unadel mezzodì - e stà due ore in un abbigliatojo che sembra un negozio diprofumiereimbellettàndosi il viso e le unghiepingèndosi le sopracigliafacendo un processo ad ogni capelload ogni crespa della camiciaper poiingollata una tazza di quella tèpida aqua che chiàmano il tè e spesaun'altr'ora a scègliersi l'àbito e ad annodar la cravattauscire... a unnuovo ozio? ¡Tòvèdilo appunto! de càpsula tòtusspandendouna puzzolente fragranzascollacciatoin calzettine di seta e lustri scarpini(chè non ebbe mai forza di portar stivaletti e tanto meno stivali) coi guanti‹nùmero seitrè bottoni› (nè in casa ne è senza)con l'ombrellino pertimor della luce e col ventaglio per timor delle moschevèdilo camminare trail peritoso e il nojatoquasi andasse sulle ovatratto tratto aspirando unaboccetta di salifermàndosi ad ogni mostra di galemàssime dove son specchiaccomodàndosi allora con un pèttine i ricci... ¡E guarda anche! ha unbraccialetto. Non gli màncano insomma che gli orecchini.»

«Ma io non alludogiojaal suo tenore di vita.»

«¿E chi ti parla di vita? Non è vita quella. Eppòidi'.¿Ti pare uomo un èssere il cui farfallino cervello non sà insìsterelogicamente in nessunìssima idèa e però o ti affolla domande sopra domandeche non attendon risposta ocome vede il lampeggio di una discussione sulserioti pianta e và a ripararsi in mezzo alle gonnedove si màngiano dolcie pàrlasi amarodov'è sol moda e calunnia? e là chiàcchiera chiàcchieracol suo vocino da vespa - impalpàbil ciarlìo a nodi grammaticali che nonlègano niente - offrendoora all'una uno spilloora all'altra un mentino?¿un èsseredi cui gli affari più gravioltre la maldicenzasonodescrìverti una toilettescarabocchiare una cifrafar cestelli dicartaraccògliere francobollidirìgere cotillonsnon leggendo altrestupidità all'infuori de' giornali di sartachè perfin Carcano e Sacchi songià cajenna per lui? ¿un èssere finalmenteche ti sà il linguaggio de'fiori meglio di una educanda e la modìstica terminologìa meglio di unasartrice e ti sà il punto a uncinetto e il punto a crocinomentre non regge incarrozza colla schiena ai cavalli e si ubbriaca con una ciliegia allo spìrito esi mette le mani alle orecchie allo sparo di un confetto-sorpresa?»

«¡Eppurefu a volontario!»

«¡Bel volontario! per forza. Chèquando la guerrascoppiavaScioli scappò... alla militare Accademia.»

«Ci vuol già del coraggio a scappare. ‹¿Chi non sarebbecodardose osasse?› Ma lasciàmola lì. Io non ti accampo a testimonio delsessoil moralele alte regioni di Scioliti accampo solo le basse...»

«E anche quì hai tortìssimo. Mira l'insegna. Non unsospetto di barba. Presso la suala guancia di una bambina è traliccio. Ei sàdi muschioviolaeliotropiopatchoulyJockeyclubtutto quelloche vuòinon di maschio. Le donne gli stanno invano vicineanziegli fàloro l'effetto di quel tal sale per cui le belle britanne odiàron Bacone che loavèa messo alla modail nitro; e per mèt'assicurose avessi una figliagliela lascerèi seco a letto più volontieri che non col casto Arbrisseul chedormiva fra due per domarsi la carne. Nè davvero comprendocom'egli abbiabisogno di tanti calmantiessèndone uno egli stesso. Maa sentirlo¡poerino! soffre sempre di nervidi nàuseedi mali di capoquasi volesseinsinuarci che è di diffìcili lune. Cert'èch'egli tiene uno specialetalento per conservarsi in una perpetua infreddatura mercè le pellicce e lesciarpe enon foss'altrodi un male non manca maila paura. ¡Bisognerebbe tufossi da lui quando lo coglie un doloruccio di ventre! Tutta la casa sossopra.Scioli grida: ¡son morto! Chi accorre col scaldalettochi col pitale. Pannicaldi di quàsenapismi di là... Sua moglie...»

«Alt! Me la dai vinta tu stesso. ¿E non è uomose hamoglie?»

«Sìl'hastando almeno ai registri dello stato civile; manon signìfica questo che la moglie di lui abbia marito. Altro è possedere lagabbiaaltro l'augello. Uomodicevano i nostri antichiè chi può fare unaltro uomoed io aggiungoeducarlo. Scioli ha sì moglienon figli; nè iocredo - se lo Spìrito Santo non vi pone il suo becco - che egli ne possa avermaiper quanto Scioli si sforzi di farsi ingravidare. »

 

FINALE

 

La palingènesi della donna.

 

Pùbblico miola commedia è finita. Tò! più nessuno. Glispettatori se la cavàrono bellamente per non compromèttere la lor dignitàcogli applàusi. Nòbili segni del loro passaggiosono bucce d'arancioguscid'arrostespiegazzati programmiscorci di zìgaroaspèrgini ammoniacali - eun fischiettoche è la perduta espressione di uno di que' benèvoli che vannoa teatro col preventivo giudizio in taschino o lèggono i libri dopo di avernescritta la crìtica. ¿Ma ecchè? ¡Lampadài del diàvolo! Anche i lumi sispèngono; ond'iopòvero autore che pretendevo di rischiarare il miopròssimotròvomi al bujoobbligato a cercarmi tastoneggiando la via.

Senonchè una fresc'àura mi sorrade la fronte. Non piùl'afanon più l'ottuso dell'arte. Sotto mi risuona il terrenomentrem'inciàmpano i piedi come in radici e do' del capo in cosi ondulanti quàipèndoli d'orologio. E un nuvolone si squarcia. La luna appare cornutainargentàndomi intorno il ricco fogliame di una selva di nocitutta a fruttidi forca.

In questaun rumore da lungiqual tuonoe sulla mia testache aggricciauno sbàttere d'ali e un rombo. Nella lunare atmosfera nereggiaun istanteun'immensa granata con su accavalcioni scarmigliate figure l'unaall'altra aggrappate. Sono le streghe chenude e untevanno a tregenda. E lagranata dispare e in una folata zufolante di vento il rombo muore in distanza.

Ecco in fondoun lumino - in fondoin fondo com'è nellefiabe delle vecchie nutrici. Io anelo arrivarlo. Vò e vòaccèlero i passipur non procedo. Sembra piuttosto che cammini la strada per mèvènendomiincontro. Il terreno sfùggemi sotto come la ruota motrice negli antichi opifizia chi dentr'essa si sgamba. E già il lume m'è a lato.

¿Che è? Una casa in rovina; la snumerata abitazione delboja. E sulla sogliadove il chiaro di luna si sposa ai caldi riflessi dellaluce interiorestà lo stesso inquilinostà l'egregio chirurgo della legalmedicinain un palandrano verde-smontato e in un galeotto berrettoche a fioredi labbro mi fà: «Ti attendevo.»

Entriamo. È uno stanzone illuminato da torce dal giallastrochiarore e dal puzzo di camposanto. Potrebbe pigliarsida chi non avesse pauraper una cucina. Ma iopaura n'ho molta. Io non scorgo che coccodrilliimpagliatiche aborti e diavoletti in ampollee lambicchi dal naso lungo eschêltri e corna di narvali e ova di roctutta roba indispensàbile a unmagoe scorgo nel mezzo una fornace in mattonibassa e quadratacon su untrìpode in bronzo e una colossale caldaja di tersìssimo ottone.

L'onesto assassino si accarezzava la sua barbettina di caproguardàndomi malignamente. «¡Incontentabile!» disse«te ne fabbricherò unaio... perfetta» esbassàtosialzòper un anello di ferrouna pietra.

Un cupo stroscio si udì. Vidi un negro baratro di aquacorrente e sulla bòtola lessi: làcrymae amàntum. E trèdicivolte il boja ne attinseversando la secchia nel bacino di ottone.

Ciò fattoegli mi porse una scure grommata di sangue ecapellie additàndomi un mucchio di combustìbile e un ceppo da tagliar legnaumanami ordinò: «¡Spacca!»

Strinsi la scure tremando. Formàvano il combustìbilefràcide assi di baraòrride ancora d'arruginiti chiodi e di brandelli dilinopezzi di confessionari e inginocchiatòi oscenamente polluti e pezzi ditrave lùcidi e lìsi dal cànapequercèe coperte di eròtici dizionaricanghe cinesispàzzole eccitatricificulnei prìapifàscini in cuojogamberotte di letto... - e lì mi diedi a spaccareespaccandotenevo d'occhio almio bojache avèa aperto un vastìssimo armadio dov'èrano innùmeri vasi amo' di que' de' spezialidi faentina majòlicasoprascritti a caràtteri goticoi nomi di FilomelaTàmarErodìadeEmmaLyonna Jezabel Mirra la Brinvilliersmamma Needham la Borgia Caesar regina Eliogàbalo...e mille e mill'altre.

Sul chebabbo Stricchegrattàtosi col dito infame la nucaschiuse pel primo il baràttolo di Evala protoputtanadonde trasse unospecchio e una piuma che dopo di avere pulitocon un rastiatojodi certoglùtine nero (e questo pose in un piatto) gittò nel bacino. Indi passò aivasetti di Marìa Stuardala troppo fedele alla chiesa e troppo infedeleagli amantie di Marìa Egiziala battezzata colle làgrime sueda cuitolse un pajo di crocefissicon su inchiodato un dèus mutìnusch'einettò parimenti della nera putrèdine e gittò nel bacino; e così fece deifiltrinodi scorsòifòrbici e limeestratti dai recipienti di Dàlila eDejanirale vincitore di Sansone e di Èrcolee di Bersabèa e Brisèidele impazzitrici di Dàvide e di Achille; e così del ferro di mulo ch'eglitrovò da Santippe(la vera cicuta di Sòcrate)così della linguadella Moglie di Giobbe(quella moglie che Dionel rapir tutto al suoamicoùnica gli lasciòa maggior punizione)e degli stilicolubrifaciincendiarie e velenicavati dall'urne di Clitennestra MedèaTaide Locusta Tarquinia. E in sèguito il mago (chè bojanon oserèi più chiamarlo) scoperse i baràttoli della socràtica Aspasia «sageau parler et folâtre à la couche»della màscula Saffod'Ipazial'astrònomaAfrania l'avvocatessaStàel la letterata... edèccone uscire uno stormo di papagallini e di palloncelli di vento con orecchieasininedi cicale e di ochettechetortito sul piatto la sòlita pecevòlano nella caldajaintanto che dal vaso di Làuragran dolore alPetrarca e gran seccatura all'Italiasprigiònasi spontaneamente una gentilecivetta che tien la medèsima strada. Nè basta. Dalla coppa di lei cheimmortalò Menelào e da quella della grossa Margotl'ammogliata al rèdi Navarra e a tutti gli ugonotti di Franciail mago si provvedette cornad'ogni materia e lunghezzamentre da Psiche Pandorae dalla Mogliedi Lotaltrettanti pugni di frasche; dalla casta Zenobia daicandidìssimi dentida Penèlope Porzia e Lucreziamàschere e fardi; e da Talestri Giovanna d'Arco e Giudittamalli di noce e fichi d'India spinosich'egli contemperò (sempre s'intendespazzàndoli dal glùtine nero che deponeva man mano sul piatto) coi grani dipepe e di orticatolti dai vasi di Messalina Contessa A*** e Pasìfaeaggiùntovi inoltre un po' di pelle agnellina della Vèrgine-Madre riunitaalla pelle di cagna d'Ipparchiae un po' del cervello d'Eloisaturbolente di sognialla prudentìssima vulva commisto della Moglied'Agrippa. E poi non mancò di scoperchiare i baràttoli di Semiràmidedella papessa GiovannaAgrippina Contessa MatildeElisabetta la grande Cristina Di Svezia MaroziaCleopatraper elèggerne penne paonine e tacchi alti tutti intrisi dellasòlita pecee intrisi ancor più di quanto ne èrano attaccaticci gli àbachie le tariffele sanguisughele gole di grù e i ventri di struzzopresi da FloraLàide e Metiche dal quarto d'orada Lamia Sinope abissoFanòstrata Crispa e dalla Cheòpide. Scoperchia escoperchiala caldaja s'empiva - una variopinta miscèa d'ogni fatta di roba.Ci si vedèano peli di porcopeli di volpedi scimmiadi gattodi giumenta edi àsino (quasi tutti strappati a regine dalla mano sinistra)ci si vedèano egrilli e berretti a sonaglitràppole e retipezzi di sùghero (forsecervelli)calzette (forse coscienze)pìllole d'oppio e palle di piombodentinascosti in sorrisitrombe d'Eustachio al rovescioassortite bugìetutelarispugnetteenigmifughe per farsi inseguirerapine abbigliate di tenerezza«sì» che parèvano «no»e «no» che parèvano «sì»piàttole edeschebanderuole e farfalle. E anche il piattoche il mago teneva fra manirigurgitava della nerìssima pece.

Allora il mago aprì un finestrino nell'altoda cui piovveun raggio di lunae mettèndovisi sotto si die' a stemperare col grattatojo lacupa tabe fojosapienaa quanto parèadi becchi di pàssero e colombinosterco. Ed ecco farsila sanietrèmula e iridiscente e poi fumosa e fosfureasviluppando un acutìssimo odore di stoccofisso e di Brie. A tale odoreoscillò per la stanza come un fioco tintinno d'isìaci campanelliuncatenaccio di castitàappeso al murosi ruppesi sciolse un nodo dellospilletto e un filo di verginità si accorciòa tale odorei capelli mi sidrizzàrono impriapiti e mi trovài sbottonato. E le chiavi infìlan le toppeilìberi chiodi si fìccano nelle fessure e nelle bottiglie i turàcciolicadeil pestello entro il bronzino e la paletta fra le gambe alle mollimentre igatti sul tetto gnàulano disperatamentebùbula il gufoe la luna falcatache scòrgesi dall'abbainocorneggia più volte le sue estremitàcome fan lelumachecercando di riunìrsele. Spalmata è la pestee il mago la gettafremente nella caldaja.

Iointantoavèa zeppa la sottofornace della legnaspaccataalternàndovela con carboni di rogofascinetti di spini e di mirtociuffi di sàndiceeringepuleggioruta e mandràgorache crescèvano acespi fra gli interstizi del pavimentoanziv'avèa aggiunto quanta cartasùdicia m'era caduta fra manicioè squarci dal Baffodal de matrimonio diSanchezdal cànone de dilectìssimisdal trattato di Villanova utmùlier hàbeat dulcèdinem - et caetera. Ma il mago non mi disse purgrazie. Un mago non dev'èsser gentile. Ei s'inginocchia sù di un cuscino collearmi della duchessa d'Estampes coronate dalla tiara papale; e borbottàtavi unagiaculatoria alle dee MùtunaCuba e Ciciniadisaccòcciasi un'àgata in formadi cuoregià estratta dall'urna di Caterina de' Mèdicispiccàndonemercè un tau egizio di ferrouna scintilla sul combustibile. Poiscaglia il cuor nel bacino. Si attacca la fiamma e crepitando si sparge per lefascine e le legna e lentamente si svolge a lambir la caldaja. Ed egli lainstigadischiudèndovi-sotto le vàlvole di due canali di ramesull'uno de'quali stà scritto suspiria; oscitatiònes sull'altro.

Sòffiano i tubi; sprònano il fuoco. Questo si alzafuriosamentementre il mago rimùgina con una spada l'infernale miscèa e lamiscèa si fonde e comincia a grillare e pùllulano bolle che scòppiano. Siaddensa la superfice del lìquido e tenta di sollevarsi ma sempre si squarcia ericade. Aumenta il follicare dei tubiaumenta il fragor del bollire; geme lapolta e si torce per trovare una fuga. Infineuna pellìcola appareche puòdopo vani conatièrgersi intera; e si erge prendendo vaporosamente un'umanafigura e intrasparendo in un roseo di mattinal nebbia. Un biondìssimo fumodalla fragranza di muschio vela la tremolante figura e si direbbe una chioma chegiù s'innanelli a larghe onde; e fra l'aurèola di esse e del fumovà lafigura accentàndosi a femminili curve e turgenze. Una bollicina di azzurro (vitriòlumcaeruleum) le scoppia nel mezzo ed ecco frèmerle a pelle il reticolatovenoso; una striscia di minio (cinnàbaris mercuriàlis) vi guizza edecco guance soffuse di pudico rossorecon una bocca che è un bacio; duefaville vi scàttanoed ecco due occhilucidi di desiderio e di làgrimecheintensamente mi fisano.

Amore mi tiranneggia. E già le pàlpito in braccioedileguo entro lei; ed anche il sogno dilegua.

Un'oncia meno di sangue; un libro di più.